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AS Roma Interviste

Il calcio di Giacomo Losi: “In campo valori e umiltà, sugli spalti amore e ombrellate”

Conoscere di persona i campioni del passato fa un certo effetto. Ancor di più se ci si trova davanti Giacomo Losi, quindici stagioni nell’AS Roma dal 1954 al 1969, terzo per presenze dopo Totti e De Rossi. Mai un’espulsione in carriera, un solo cartellino giallo proprio durante l’ultima partita.

L’effetto è amplificato se il tutto accade nell’angusto spogliatoio di un campo di calcio romano, dove ogni sabato mattina “er Core de Roma” dirige gli allenamenti dell’ItalianAttori. Losi ha portato con sé un oggetto speciale. Avvolta in un foglio di carta, dal suo borsone estrae la riproduzione in scala della Coppa delle Fiere che sollevò nel 1961: “Tiè, lo sai che è questa?”. È l’esemplare in miniatura che consegnavano solo ai capitani delle squadre vincitrici.

Lo scorso 11 ottobre è ricorso l’anniversario della vittoria della Coppa delle Fiere del 1961, unico trofeo internazionale vinto dalla Roma oltre al Torneo Anglo-Italiano. In carriera lei ha inoltre vinto due coppe nazionali. L’odierna Europa League e la Coppa Italia sono oggi competizioni sottovalutate?
Chi le sottovaluta sbaglia. Questo è l’unico trofeo europeo vinto dalla Roma. [Mi porge la replica della Coppa delle Fiere, nda]. Uno deve scendere in campo sempre con l’idea di vincere. Io se potevo vincere anche la Coppa del Nonno, davo tutto e cercavo di trasmetterlo ai miei compagni. In Svizzera giocammo la Coppa delle Alpi: io volevo vincerla, anche se era considerata una competizione secondaria. Sai, noi romanisti abbiamo poco da fare gli schizzinosi.

Quanto sono cambiati i calciatori dai tempi in cui lei giocava?

Moltissimo. In generale c’era più umiltà. Oggi molti sono orientati più al proprio tornaconto che a quello del gruppo. Pensa che io giocai il ritorno di Roma-Hibernian, semifinale di Coppa delle Fiere, il giorno dopo aver giocato in Nazionale. Arrivai al ritiro pre-partita e l’allenatore mi chiese: “Te la sentiresti di giocare?”. E io: “Subito!”. Poi lo chiese agli altri che risposero: “Magari!”. E chissà come sarebbe andata senza di me, visto che sul pareggio salvai un goal sulla linea permettendo alla Roma di giocare la bella, che vincemmo 6-0.

E i tifosi come sono cambiati?
I tifosi oggi sono più polemici, si sentono tutti allenatori. Ai miei tempi c’era il vero amore incondizionato. Andavano allo stadio per vedere la partita, tutta la famiglia, con le pagnottelle da mangiare. L’Olimpico era pieno anche se giocavamo contro la Pro Patria. Oggi la partita non è più il “rito sacro” che diceva Pasolini, lo stadio non si riempie nemmeno al derby. L’ultima volta che sono andato guardavo gli spalti semivuoti e mi faceva impressione. Non si fa nulla per avvicinare i tifosi.

Poi, questa storia delle barriere nelle curve dell’Olimpico è assurda. Come se c’entrassero qualcosa con la violenza. Ai tempi miei c’erano le vere risse sugli spalti, ma non gli si dava tutta questa amplificazione mediatica. Oggi invece se ogni tanto c’è una scazzottata viene montata da giornali e tv come fosse la fine del mondo. Ai tempi miei sai le ombrellate che volavano! Ma mica se ne accorgeva nessuno, finiva lì.

Lei con Pasolini ci ha giocato, vero?

Ci ho giocato e l’ho allenato, perché già al tempo allenavo la Nazionale Attori. Nel 1971 giocai con lui una partita allo Stadio Flaminio: ex giocatori di Roma e Lazio contro attori. In quell’occasione lo marcavo, era un giocatore modesto, ma innamorato di questo sport. La cosa bella è che non faceva pesare la sua personalità: lui era Pasolini cazzo, ma non ce ne accorgevamo.

Avevamo molto in comune, se ci penso. Entrambi negli anni Cinquanta eravamo venuti dalla provincia del Nord in questa enorme capitale col cuore pieno di speranza. Tutti e due ne siamo divenuti un simbolo.

Eravamo entrambi due antifascisti: io da piccolo portavo le munizioni ai partigiani che dalle mura sparavano ai nazisti, mio padre era facchino e mia madre filandiera. Nonostante ciò parlammo sempre e solo di calcio, mai di politica. Con lui era così. Oggi l’Italia avrebbe bisogno di un intellettuale come lui, anche lo sport ne beneficerebbe.

La dirigenza dell’AS Roma secondo lei sta valorizzando la memoria del club?

Qualcosa hanno fatto, come la Hall of Fame, ma si potrebbe fare di più. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato. I giovani devono imparare la storia, e invece i tifosi di oggi non sanno nemmeno come è nata l’AS Roma. Anche Campo Testaccio è scandalosamente abbandonato. Per me, da romanista, quel campo è una reliquia: ci vorrebbe un maggiore sforzo per salvarlo.

Lei ha una scuola calcio a Valle Aurelia. Com’è il calcio di base a Roma?

Il comportamento dei ragazzini è diverso dai tempi miei. Molti genitori pensano di avere in casa un Totti o un Pelè. I miei non sapevano nemmeno che andavo a Cremona a giocare, non so se mi spiego. Ed avevo sedici anni! Mai che mio padre m’avesse detto: “T’accompagno io”. Era impossibile che la cosa si esasperasse, si restava coi piedi per terra.

Oggi invece tutto è esasperato. Questo rovina i tifosi e i giovani appassionati. I bambini di oggi non hanno con la passione del calcio come sport, hanno la passione del calcio come spettacolo televisivo, o videogioco, quelle cose elettroniche là.

Così si perdono i valori del vero calcio, quindi non mi stupisco che ci sia il doping anche tra i giovani delle categorie amatoriali. Alcuni ne approfittano, altri sono ingenui e pensano che queste cose gli facciano bene. Io le pasticchette di Herrera le buttavo per terra, lui non mi accettò anche per questo.

Cosa insegna ai bambini?
La prima cosa che insegno sul campo è l’educazione. Mi piace che in campo si comportino bene perché se lo fanno in campo lo fanno anche nella vita. Quando presi il mio primo ed unico cartellino giallo, durante la mia ultima partita, l’arbitro mi chiese scusa, perché sapeva che ci tenevo. Ma era meritato, mi avevano lasciato solo là dietro e io ne dovevo tenere due.  

Come divenne amico di Di Stefano?

Fu nel 1956, durante una tournée in Venezuela con Real Madrid, Porto e Vasco da Gama. Stavamo nello stesso albergo, alla mensa ci davano il minestrone. Il nostro massaggiatore Cerretti portò da Roma un sacchetto di Grana Padano per usarlo durante i pasti. Di Stefano dal tavolo del Real Madrid vedeva che mettevamo il formaggio sulla minestra, mi si avvicinò e mi disse: “Cos’è quello?”. Glielo feci assaggiare e mi chiese come poterlo avere a casa. “Dammi il tuo indirizzo e te lo spedisco”, dissi io. E gli mandai una forma di Grana. Da quel giorno diventammo amici. Lui è uno dei più grandi giocatori mai esistiti, un simbolo di un calcio ormai andato.

Pubblicato su Gioco Pulito il 13 ottobre 2016

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