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  • Dale Boca, belìn: il club più prestigioso d’America, fondato su una panchina dai genovesi

    Le origini del Boca Juniors

    Buenos Aires, 3 aprile 1905. Un gruppo di adolescenti di origine italiana, abitanti del quartiere della Boca, fonda il Boca Juniors. Stimolati dal professore di educazione fisica, la combriccola si reca a casa di uno di loro, Esteban Baglietto, per dar vita a un club di calcio: qualcosa di abbastanza normale se consideriamo che nel 1907 erano stati fondati in Argentina circa 300 club calcistici. Per il chiasso provocato i giovani vengono cacciati di casa e si sistemano nella vicina Plaza Solís, dove su una panchina, scartato il nome Hijos de Italia,fondano il Boca Juniors. Boca, in onore del loro quartiere di appartenenza, e Juniors, perché l’inglese dà sempre un tocco di prestigio, soprattutto se accostato al nome di un quartiere al tempo considerato poco raccomandabile. Baglietto, presidente minorenne, non immaginava che il club fondato con gli amici di prestigio ne avrebbe guadagnato a dismisura, fino a divenire uno dei più titolati al mondo e l’unico a non retrocedere mai dalla Primera División argentina.

    Per i primi anni il Boca indossa divise dai colori altalenanti, finché nel 1907 viene adottata la colorazione azul y oro. Secondo la leggenda, non riuscendo a mettersi d’accordo sui colori da adottare, il gruppo di ragazzi si affida al fato: vanno al porto di Buenos Aires e attendono il passaggio della prima imbarcazione. La prima a passare è una barca che batte bandiera svedese. Secondo la storiografia riconosciuta dal club, invece, è Juan Bricchetto, al tempo operaio portuale, ad avvistare l’imbarcazione scandinava e a proporre l’idea agli altri. Il club adotta inizialmente una maglietta con fascia diagonale gialla su sfondo blu, poi trasformata in banda orizzontale, probabilmente per motivi logistici legati alla cucitura.

    Sembra Genova

    Baglietto, Scarpatti, Sana, Farenga, Movio… La Boca era un quartiere portuale di immigrati italiani in maggioranza genovesi, così diverso dal resto dalla città che al tempo gli altri abitanti di Buenos Aires lo consideravano quasi un’entità a parte. Nel 1882 alcuni suoi abitanti proclamarono l’indipendenza dal resto dell’Argentina: issarono una bandiera genovese e scrissero al re Umberto I chiedendo il riconoscimento della Repùblica Independiente de la Boca.  

    Povera e culturalmente vivace, con le sue caratteristiche casette colorate coperte da chapas de zinc, la Boca era popolata da operai portuali, marinai, prostitute, pittori, poeti, pizzaioli, socialisti, anarchici, garibaldini e compositori di tango. Non ci saremmo stupiti a vedervi anche una Via del Campo.

    Conseguenza diretta della prevalenza di immigrati genovesi, anche tra i fondatori del club, è che dai primi decenni del Novecento ad oggi il tifoso del Boca è sempre stato chiamato Xeneize, che significa semplicemente “genovese” in dialetto genovese. Visitando il sito ufficiale del Boca, si può constatare che è tradotto in sole quattro lingue: spagnolo, inglese, italiano e genovese. Ma la continuità con la cultura ligure non si limita alla lingua: ancor oggi passeggiando per le vie del quartiere si può assaggiare la fugaza, tipica focaccia genovese, o la fainà, la farinata di ceci.

    Il pizzaiolo del Boca

    Nessuno si stupisca, dunque, se tra i simboli del Boca figura anche un simpatico pizzaiolo, stereotipo dell’immigrato italiano della prima metà del Novecento. Il suo nome è Pedrín el fainero e non differisce molto dai pizzaioli che popolano i nostri cartoni della pizza, non fosse per la maglietta azul y oro che indossa con orgoglio. La nascita di questa mascotte è curiosa: tra il 1940 e il 1952 andò in onda una popolare trasmissione di radio-teatro chiamata Gran Pensión El Campeonato, che veniva trasmessa la domenica e introduceva ogni giornata di Primera División. I protagonisti erano gli ospiti di una pensione, ognuno rappresentante di un club della massima serie argentina, in lotta fra loro per conquistare il cuore della padrona di casa, Miss Campeonato. La storia volle che il primo anno di trasmissione coincise con la vittoria del Boca in campionato: Pedrínguadagnò una popolarità tale che al centro della Bombonera fu inscenato un matrimonio tra i due personaggi.

    Due rappresentazioni di Pedrin, il pizzaiolo del Boca

    Genova e Boca, un legame indissolubile

    Ancor oggi il legame tra Genova e la Boca è forte: nel quartiere, nonostante i grandi cambiamenti sociali, c’è ancora qualche anziano che continua a parlare genovese. Ma, al di là della lingua, tutti si riconoscono almeno in parte di sangue italiano. Anche a livello calcistico non sono mancate dimostrazioni d’affetto transoceaniche. Nel 1969-70 un gruppo di tifosi doriani assunse il nome di Ultras Tito Cucchiaroni, giocatore italo-argentino che tra gli anni Cinquanta e Sessanta militò nel Boca Juniors e nella Sampdoria. Negli anni Novanta, poi, i vertici della federazione delle peñas del Boca vollero entrare in contatto con il club doriano e i suoi tifosi: ne risultò la nascita del “Sampdoria Club Buenos Aires”. Negli anni Duemila anche i genoani hanno sancito un legame ufficiale, con la nascita del “Genoa Club La Boca”, per raccogliere i tifosi genoani della capitale argentina: è bene ricordare, infatti, che quando fu fondato il club azul y oro a Genova esisteva solo il Genoa. Infine, impossibile ignorare il triangolo che lega Genova, Napoli e Buenos Aires. Complici il gemellaggio più che trentennale tra rossoblù e partenopei, il carattere marinero delle tre città e, ovviamente, una persona chiamata Diego Armando.

    Chiedetelo a Pedrín il pizzaiolo.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 10 agosto 2016

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  • “El Gordo” Ortigoza, dai tornei clandestini alla Copa Libertadores

    La rincorsa anomala, frontale rispetto al dischetto del rigore. Qualche falcata, una serie di passi fulminei, la frenata oscillante appena prima del tocco e poi… quell’attimo. Quella impercettibile frazione di secondo in cui Nestor Ortigoza capisce se il portiere va di qua, di là o lo aspetta. Quel momento in cui decide se aprire il piatto verso destra o tirare di collo a sinistra. Segue un tiro secco e sicuro, se il portiere ha avuto la fretta di buttarsi, ma è un tiro violento e angolatissimo, se il portiere ha deciso di sfidare el Gordo aspettando che sia lui a fare la prima mossa.

    Nestor Ortigoza, mediano del San Lorenzo de Almagro, ritiene di aver trovato la chiave per segnare sempre, o quasi, su calcio di rigore. A dirlo non è lui, ma i suoi numeri: ad aprile 2016 ha segnato 32 su 33 rigori nel calcio professionistico, ma è probabile che a fine carriera la statistica sarà ancora più sconvolgente. La sua percentuale realizzativa è del 97%, con un solo rigore parato dal portiere e nessuno calciato fuori dallo specchio. A interrompere la serie positiva di 19 rigori realizzati è stato nel 2012 Nelson Ibáñez, portiere del Godoy Cruz.
    Le ottime doti tecniche del centrocampista argentino naturalizzato paraguaiano non possono bastare a spiegare la sua quasi totale infallibilità dal dischetto. Giocatori che certamente si sono distinti più di lui dal punto di vista della qualità hanno inciso molto meno su rigore. La sua vicenda biografica è certamente una chiave per capire dove Orti trovi la freddezza, l’intuito e la perfezione tecnica per mettere a segno i suoi calci di rigore.

    Nestor Ezequiel Ortigoza nasce nel 1984 in una zona povera a ovest di Buenos Aires. Il soprannome con cui lo chiamano oggi i suoi tifosi, el Gordo, racconta di un ragazzo dal viso rotondo e dal fisico certamente robusto. A dispetto dell’anagrafe, sin da piccolo nel suo quartiere tutti lo chiamano Jonatan: è come avrebbero voluto chiamarlo i genitori, ma in quegli anni la recente ferita della guerra delle Isole Malvinas vietava nomi inglesi.

    Le condizioni economiche della famiglia Ortigoza non permettono al figlio di dedicarsi al calcio in via esclusiva: dopo gli allenamenti vende quaderni, gelati, scarpe, caramelle e altri beni ai semafori e sui treni. Nonostante ciò, il miglior modo per guadagnare qualche soldo in più è un altro. Lo zio Manuel lo porta di notte a vedere i tornei clandestini di calci di rigore a cui prende parte. Chi gioca vince soldi, chi guarda scommette.

    Per più di un anno, Nestor osserva lo zio e gli altri partecipanti calciare migliaia di rigori, durante interminabili tornei a eliminazione che durano dalla sera del venerdì all’alba del sabato. Come tutti i bambini, vuole copiare gli adulti: prende un pallone e passa i pomeriggi a colpire gli alberi per strada. Grazie all’imitazione e all’allenamento precoce e solitario, Nestor sviluppa un piede sopraffino, che gli permette presto di partecipare ai tornei e di portare a casa somme cospicue di denaro.

    È qui che perfeziona la strategia con cui realizza i rigori, dai campi in terra alla Primera División. Così la descrive a Canchallena: “Aspetto il portiere fino all’ultimo istante. Se non si muove, tiro forte a un palo. Lo decido sul momento, ma bisogna avere grande coordinazione, perché è difficile cambiare tutto a un passo dal pallone. Ma io ormai sono abituato”.

    Sempre in gioventù, Nestor affianca ai tornei di rigori quelli – anch’essi illegali, ma più tradizionali – di calcio a undici, grazie ai quali continua a guadagnare. Con una sua squadra del suo quartiere, la Central del 30, continua a frequentare i campi di terra anche durante le giovanili all’Argentinos Juniors, arrivando a giocarsi anche diecimila pesos a partita: “Una squadra metteva i soldi, lo stesso faceva l’altra. Partecipava alla scommessa anche gente esterna, scommettendo su una delle due squadre e garantendoci una percentuale”, ha descritto a El Gráfico.

    Nemmeno dopo lo sbarco in prima squadra si dedica esclusivamente al suo club: per guadagnare di più Ortigoza continua ad arrotondare con i tornei, così come a svolgere il mestiere di venditore ambulante. L’allenatore Ricardo Caruso Lombardi, cosciente della doppia vita sportiva del suo calciatore, così come dei suoi mestieri complementari, intercede presso la dirigenza del club e ottiene per lui un contratto più vantaggioso.

    Per le sue origini umili, per il suo carattere anticonformista e irriverente, Ortigoza ha sempre riscosso la simpatia dei tifosi delle squadre per cui gioca. Squadre che, salvo qualche mese in prestito in Argentina e negli Emirati Arabi, sono state solo due: Argentinos Juniors e San Lorenzo. Nemmeno la sua consacrazione definitiva nella squadra di Buenos Aires, che allontana del tutto i problemi economici, riesce a renderlo indifferente al richiamo del potrero. Una parola, intraducibile in italiano, che per un argentino richiama un’irregolare porzione di terreno su cui tra sassi e fango si pratica un gioco con poche regole e sottratto al controllo delle istituzioni. Il potrero è il luogo in cui Ortigoza, come molti campioni argentini, si è formato calcisticamente, riuscendo a mettere in risalto le proprie doti tecniche senza dimenticare l’aspetto fisico. Per una persona così attaccata alle sue origini e alla sua gente è difficile non ascoltarne il richiamo.

    A riguardo, un episodio descrive bene il suo carattere. Qualche anno fa alcuni tifosi azulgrana stavano assistendo ad un torneo amatoriale su un campo in terra.  È facile immaginare l’entusiasmo che li colse quando, del tutto a sorpresa, videro entrare in campo Ortigoza: un giocatore della massima serie che rischiava le caviglie su un campo non proprio leggero. Ma in fondo, per lui era del tutto normale: “Ero riserva e sapevo che la settimana dopo avrei dovuto giocare. Perciò sono andato a Catán con i miei amici: dovevo riprendere il ritmo!”, ha raccontato sempre a El Gráfico.

    Di episodi del genere, nella carriera di Ortigoza, ce ne sono senza fine, senza che l’incedere degli anni abbia contribuito a diminuirli. A settembre 2015 il San Lorenzo stava per giocarsi la vetta della classifica in casa del Boca Juniors, ma il giorno prima la nazionale del Paraguay aveva un’amichevole contro il Cile. Ortigoza si è rifiutato di scegliere: dopo 86 minuti giocati con la albirroja è corso all’aeroporto di Santiago, per arrivare a Buenos Aires alle quattro di mattina. Giusto in tempo per dormire qualche ora e recarsi alla Bombonera, dove a 18 minuti dalla fine è entrato cambiando l’andamento della partita.

    Con il San Lorenzo, Ortigoza ha segnato i due goal più importanti della sua carriera. Il primo ha regalato, alla fine del Torneo Clausura 2012, la salvezza al San Lorenzo. Si giocava lo spareggio di ritorno tra i cuervos e l’Instituto, squadra di seconda divisione. Gli ospiti si erano portati sullo 0-1, riducendo al minimo il vantaggio dei padroni di casa, che avevano vinto l’andata 2-0. Ortigoza segnò il goal dell’1-1 trascinando definitivamente il San Lorenzo fuori dall’incubo.

    Nel 2014 un altro suo goal ha invece portato al club di Boedo la prima Copa Libertadores della sua storia. Al 36° minuto Ortigoza ha fatto esplodere lo stadio del San Lorenzo, segnando l’unica rete della finale di ritorno contro il paraguaiano Club Nacional, dopo l’andata finita in parità. Grazie al suo goal il San Lorenzo, fondato nel 1904 da un prete per salvare dai tram un gruppo di ragazzini dediti al calcio di strada, ha toccato il punto più alto della propria storia. Non male per un calciatore che fino a qualche anno prima continuava a giocare nei potreros.

    Ovviamente, entrambi i goal sono stati su calcio di rigore.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 5 aprile 2016

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