«Domenica prossima 3 Novembre questa Associazione inaugurerà il suo campo sportivo in Via Zabaglia con la partita pel campionato Italiano con la squadra di Brescia. Alle ore 14 il Vescovo Castrense impartirà la Sua Benedizione. Questa presidenza si permette di rivolgere viva preghiera alla E.V. perché voglia concedere di onorare con la Sua presenza la cerimonia di inaugurazione». Così il presidente della Roma Renato Sacerdoti invitava Benito Mussolini all’inaugurazione di Campo Testaccio. Era il 30 ottobre del 1929: quattro giorni dopo la Roma avrebbe inaugurato il suo stadio e qualche anno dopo Sacerdoti, ebreo di Testaccio, sarebbe stato mandato in esilio per via della sua fede.
Categoria: Storie
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Lupa contro Leone: 86 anni di Roma-Trastevere, da Bernardini a Totti
Lupa contro Leone, una sfida lunga 86 anni. Oggi la Roma affronta in amichevole il Trastevere, realtà affermata del calcio locale romano che negli scorsi anni ha sfiorato la promozione in Serie C. La partita, in programma alle 17.30, si disputerà a porte chiuse, ma permette di aprire un altro tipo di porte, quelle della memoria e della storia del calcio romano. Come segnalato dall’account Instagram della squadra amaranto, presieduta da Pier Luigi Betturri, la Roma e il Trastevere – nelle varie denominazioni assunte dalle società del Rione XIII nel corso della sua storia – si sono sfidate numerose volte tra partite ufficiali e amichevoli.
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“Ecco la pellicola inedita del derby di Pierino Prati del 1975”
La qualità dell’immagine è quella che è. La qualità del reperto storico, invece, è altissima. E gli appassionati di storia romanista probabilmente non se lo sono fatto sfuggire. È un video amatoriale che più amatoriale non si può, girato in buona parte il 23 marzo 1975 allo Stadio Olimpico: è il derby del gol di Pierino Prati, quel Pierino Prati immortalato nelle immagini sfocate che lo vedono alzare al cielo il mazzo di fiori che gli regalava sempre una tifosa a inizio partita.
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Pasolini e la Roma tra vita e romanzi: una storia di stadio e di borgate
Quarantatré anni fa all’Idroscalo di Ostia veniva assassinato Pier Paolo Pasolini. Per tutta la vita, da Bologna al Friuli fino a Roma, il suo sguardo di profondo osservatore della società si rivolse anche al calcio. Tifoso rossoblù e appassionato calciatore amatoriale, non si vergognò mai dell’apparente contraddizione di intellettuale impegnato che si perdeva appresso a un gioco considerato qualunquista. Con la Roma ebbe un rapporto particolare. Nel 1957 “l’Unità” lo inviò all’Olimpico a seguire un derby vinto 3-0 dalla Roma, ma invece di farne la cronaca raccontò i settori popolari e popolati di giallorossi. Al suo fianco c’era Sergio Citti, in tasca un taccuino sui cui annotare qualche espressione del dialetto romanesco. Ma soprattutto, la Roma c’è nelle sue opere letterarie. I suoi protagonisti, quando sono tifosi, sono tifosi della Roma. Dalle baracche ai palazzoni fino ai vicoli dei rioni del centro, l’universo pasoliniano è genuinamente giallorosso. In questo capitolo, tratto da “Il calcio secondo Pasolini”, pubblicato da Aliberti Compagnia Editoriale, si ripercorre il suo rapporto biografico e letterario con la Roma.
La fede calcistica di Pasolini non fu mai messa in discussione. Più volte fugò ogni dubbio, soprattutto durante gli anni romani: «Romanista non sono, e neanche laziale. So’ der Bologna», scrisse nel 1957. Eppure, un rapporto particolare lo legò alla squadra giallorossa. Pur non essendo romano di nascita, Pasolini è innegabilmente divenuto un simbolo di Roma, soprattutto delle sue periferie. La borgata romana adottò Pasolini e Pasolini adottò la borgata, continuando a frequentarla anche quando si trasferì in quartieri borghesi come Monteverde o l’EUR. Gran parte delle persone di cui si contornò nella capitale proveniva dalle zone dimenticate della città, e proprio lì, tra fabbriche e baracche, si avventurava in spedizioni alla ricerca di volti originali per un film. E i figli delle borgate, a partire dai suoi grandi amici Ninetto Davoli e i fratelli Citti, tifavano per la Roma.

Pasolini a una partita della Nazionale dello spettacolo, fotografato da Umberto Pizzi Per naturale conseguenza, la Roma è la squadra di Tommaso Puzzilli e dei suoi amici in “Una vita violenta”. Come descrive Valerio Piccioni in “Quando giocava Pasolini”, i nomi dei calciatori dell’epoca vengono gridati come incitamento mentre si gioca a biliardino: c’è spazio per un «Daje, a Veleno!», soprannome dell’interista Benito Lorenzi, ma anche e soprattutto per un «Forza, a Treré!», centrale della Roma di quegli anni. In borgata il calcio è una cosa seria e attribuire a qualcuno il tifo per la squadra rivale può equivalere a un insulto: «An vedi questi! Ammazza che broccolo! […] ‘Sto laziale stronzo!», grida Tommaso a chi non lo fa giocare a biliardino. E in un’altra occasione, stavolta escluso da una partita di calcio vera e propria, Tommaso si lamenta: «Quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete ‘a Roma?». Poi, entrato in campo di prepotenza, si paragona a uno dei giocatori più tecnici della Roma del tempo: «Nun lo vedi che so’ Pandorfini so’?». Infine, nell’ultimo capitolo del romanzo, la sua vita è cambiata: al suo riscatto sociale è seguito quello morale, che culminerà con l’atto che lo porterà alla morte. Da simpatizzante prima fascista, poi democristiano, si è infine avvicinato al PCI durante la degenza in ospedale. Nella sua giacca, assieme al portafoglio con la tessera del partito, c’è una penna biro giallorossa: forse l’unico simbolo del suo passato che resiste.
Anche nei primi racconti romani, datati 1950-51, la Roma è l’unica squadra evocata. Nel racconto “La passione del fusajaro” il venditore di fusaglie “Morbidone” si innamora di un maglione visto in una vetrina a Campo de’ Fiori e la sua infatuazione verso il costoso oggetto del desiderio lo porta a fantasticare: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica, a Ostia – no, alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto – a dispetto di Luciano e Gustarè – ed egli col maglione azzurro sarebbe andato a ballare in una sala del Trionfale: e avrebbe ballato con le più belle ragazze». Ed è della Roma anche l’ipotetico giornalista a cui si rivolge Pasolini nel racconto “Reportage sul Dio”, che si scommette il caffè con il barista sui risultati della squadra giallorossa.

La pagina de “l’Unità” del 28 ottobre 1957 con l’articolo scritto da Pasolini inviato al derby Dialetto, giochi, scorribande, bagni nel fiume e nelle marrane: Pasolini è pronto a farsi coinvolgere in tutto ciò che il microcosmo delle borgate romane può offrirgli, compreso il tifo per una squadra di calcio. Sarebbe però scorretto affermare che iniziò a tifare per la Roma, perché mai rinnegò il suo esclusivo amore per il Bologna, ma è evidente che il suo interesse verso la squadra giallorossa andò ben oltre la semplice curiosità da osservatore. Il poeta Aldo Onorati parla esplicitamente di questa sua “simpatia” per la Roma: «Quando veniva a trovarmi ai Castelli Romani, si finiva per parlare anche di calcio. Io tenevo alla Lazio: squadra che lui, tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista, non vedeva proprio di buon occhio». A far crescere in lui questa simpatia romanista contribuì certamente Sergio Citti, che lo introdusse al mondo del tifo giallorosso nei settori popolari dell’Olimpico, coacervo di romanità da cui Pasolini rubava volti, espressioni, caratteri.
Tuttavia Paolo Volponi, intervistato da Laura Betti nel documentario “Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno”, racconta di essere andato allo stadio con Pasolini, ma per altri motivi: «La Roma era famosissima perché aveva tanti assi ma perdeva sempre. Beccare in casa col Legnano, col Modena… Per noi era un divertimento immenso vedere come si disperava la folla romana di fronte a questi disastri che gli capitavano sistematicamente tutte le domeniche». Risulta difficile credere che Pasolini andasse allo stadio solo per soddisfare la sadica voglia di vedere gli altri disperarsi. Più probabile è che, come accadde nel derby del 1957 vinto dalla Roma e da lui raccontato per “l’Unità”, fosse naturalmente portato a schierarsi con i più deboli: «Non si può non avere simpatia per i vinti: i vittoriosi me lo concederanno…». Insomma: Pasolini si sentiva affine ai tifosi della Roma perché era la squadra del popolo, tifata nei degradati rioni del centro e nelle periferie dimenticate, dagli immigrati venuti dalle campagne, dai baraccati, dagli emarginati. Ma quando erano i più deboli a battere la squadra della capitale, non poteva che sorridere.
“Il calcio secondo Pasolini” di Valerio Curcio è in libreria dal 31 ottobre 2018 per Aliberti Compagnia Editoriale; 144 pagine, 16 euro
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Appio Latino, nasce l’Epiro Calcio a 5: la squadra di quartiere giocherà dove iniziò Totti
Roma cambia. Lì dove c’era la terra battuta, ora c’è l’erba sintetica. Al posto del campo su cui Francesco Totti calciava il pallone con la maglia della Fortitudo, ci sono adesso modernissimi campi da calcio a 5, da calcio a 8 e da paddle. È su quella terra che un bambino biondo nato a Porta Metronia iniziò a giocare per la prima volta con una divisa indosso, a sette anni, proprio con la Fortitudo. Prima, solo tanti calci ai Super Santos nel cortile della “Manzoni” oppure a Villa Scipioni o tra i banchi del mercato di Piazza Epiro.
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Roma-Juventus significa Campo Testaccio: così nacque il nostro primo inno
Cosa c’entrano Pirandello, un tango, un Roma-Juventus, il primo film italiano col sonoro e un altro film con i giocatori della Roma sul set? Se fossimo in uno di quei giochi televisivi in cui bisogna indovinare la parola che collega tutte le precedenti, la risposta sarebbe semplice, per un tifoso della Roma: “La canzona de Testaccio”.
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C’era una volta il Lanerossi Vicenza: dal Veneto a Stamford Bridge
Un altro pezzo del calcio italiano è destinato a sparire. Il Vicenza Calcio, già Lanerossi Vicenza degli anni gloriosi, è sull’orlo del fallimento. Ieri era l’ultimo giorno utile per pagare i giocatori, senza stipendio da mesi, e scongiurare la messa in mora della società di Lega Pro. Ma l’amministratore unico Fabio Sanfilippo, personaggio ambiguo che è subentrato alle precedenti e disastrose gestioni, ha comunicato ai calciatori che non sarebbero stati pagati in giornata. La strada sembra segnata: i giocatori avranno la possibilità di svincolarsi e i biancorossi non si presenteranno alla sfida di Coppa Italia di sabato contro il Padova. La retrocessione in Serie D, vuoi per la decurtazioni di punti vuoi per il fallimento del club, sembra ormai inevitabile.
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Celtic, 50 anni fa la coppa dei ‘Lisbon Lions’
GLASGOW – Fanno festa oggi i biancoverdi di Glasgow. Il 25 maggio 1967 il Celtic sconfisse l’Inter di Helenio Herrera in finale di Coppa dei Campioni all’Estádio Nacional di Lisbona, di fronte a 56 mila spettatori. Quella squadra, formata da solo giocatori scozzesi cresciuti nel vivaio del Celtic, rimase nella storia col nome di ‘Lisbon Lions’, i leoni di Lisbona.
LA PARTITA – Dopo soli 7 minuti, Sandro Mazzola trasformò il rigore in favore dell’Inter, che partiva favorita. Tuttavia il gioco offensivo del Celtic ebbe la meglio sul catenaccio di Herrera. Al 62′ Tommy Gemmell segnò il pari da fuori area e la partita si decise al minuto 85 con un rocambolesco goal firmato da Steve Chalmers.
IL ‘QUADRUPLE’ – Il Celtic chiuse quella stagione in maniera irripetibile: vinsero anche campionato, coppa nazionale e coppa di lega. Non è un caso che quest’anno, a 50 anni dalla finale di Lisbona, gli scozzesi abbiano dedicato la nuova maglia alla celebrazione dell’anniversario.
Pubblicato su CorriereDelloSport.it il 25 maggio 2017
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Che fine hanno fatto i compagni di giovanili di Totti?
“Zero a zero” è un film documentario diretto da Paolo Geremei. Racconta le storie di tre promettenti talenti delle giovanili romaniste nati nel 1977. Un anno dopo Totti, con il quale hanno condiviso alcuni anni in maglia giallorossa.
Sono le storie di tre giovani campioni, promesse del calcio il cui destino di gloria sembrava segnato. Storie che, per motivi differenti, sono andate diversamente da come ci si aspettava e che insieme narrano una sorta di anti-storia del calcio: quello che poteva essere e non è stato, le vicende umane di chi al calcio ha regalato la propria giovinezza per poi scoprire che non era quella la sua strada. In questa intervista, il regista Paolo Geremei risponde ad alcune domande sul suo film, che sarà distribuito per la prima volta in DVD dal 10 settembre in edicola.
- Daniele Rossi, attaccante, nel 1993 segnò il goal-scudetto con gli Allievi Nazionaligiallorossi. Davanti faceva coppia con Francesco Totti. Nella finale contro il Milan il numero 10 sulle spalle lo aveva lui. Oggi lavora in una pizzeria di Testaccio e allena una squadra giovanile.
- Marco Caterini era il portiere della Nazionale Under 16. Nel 1992 aveva giocato a Wembley in un’amichevole contro l’Inghilterra. All’Europeo di categoria del 1993 era partito titolare, con Buffon in panchina. Oggi fa il geometra e, ogni tanto, pensa ancora alla sua carriera che non ha preso il volo.
- Andrea Giulii Capponi era invece il portiere della Nazionale Under 17. È andato in trasferta con la Roma a Madrid e poi in ritiro con Carlo Mazzone. Dopo aver giocato nel calcio dilettantistico, oggi prepara i portieri della Lazio.
Paolo, come mai hai scelto di raccontare l’altra faccia della medaglia del mondo del calcio?
Non sono partito dall’idea di parlare di calcio. Sono partito da queste storie, che secondo me meritavano di essere raccontate, al di là della mia passione per il pallone. Non le ho raccontate da esperto di calcio, ma da curioso, facendo spesso domande semplici, che avrebbe fatto chiunque. Ho iniziato a girare non sapendo assolutamente dove saremmo andati a finire. Penso che alla base della buona riuscita del film c’è il rapporto di totale sincerità che si è instaurato con i tre ex calciatori.

Al giorno d’oggi siamo bombardati di notizie sul calcio, è ormai difficile cogliere il lato umano dei calciatori, distinguere la loro immagine pubblica dalla loro personalità. Tu sei entrato in stretto contatto con tre ex potenziali campioni. Se le loro carriere fossero andati per il verso giusto, forse non si sarebbero mai aperti così. Ti ha fatto effetto?
Probabilmente avrebbero sviluppato caratteri un po’ differenti, ma ho conosciuto tre persone talmente splendide che forse sarebbe cambiato solo l’atteggiamento, mentre la loro sostanza sarebbe stata la stessa.
Il recente abbandono del giovane laziale Cardelli ci dà spunti su cui ragionare: ha accusato il sistema-calcio delle giovanili di essere “esterofilo” e di non favorire la crescita di talenti italiani. Ma soprattutto svela quanto i club possano essere spietati verso i proprio giovani. Qual è il sentimento dei tre atleti verso il club in cui hanno giocato, la Roma?
Andrebbe chiesto a loro ed è un tema ovviamente delicato. Comunque, a posteriori, sono contenti di aver fatto ciò che hanno fatto, soprattutto Caterini e Rossi. Sono coscienti di aver avuto di aver vissuto emozioni forti e momenti che chiunque sognerebbe, di aver avuto allenatori fantastici e di aver giocato al fianco di grandi giocatori. Ciò gli permette anche di pensare alla carriera da allenatore. Se poi hanno del rancore verso qualche dirigente o procuratore è un qualcosa che va al di là di questo.
La tua opera va contro la retorica comune secondo cui “se insegui i tuoi sogni ce la farai”. Il film ci dice: se qualcosa va storto e non dipende da te puoi anche non farcela. Forse aiuta ad affrontare in maniera positiva il venir meno di un sogno, è così?
Aiuta sicuramente e credo che questo sia un aspetto molto importante. Sia per i ragazzi, sia soprattutto giocatori e allenatori. Penso che il film abbia una forte valenza pedagogica: insegna come approcciarsi al calcio e in generale ai propri sogni. Ma forse bisogna essere un po’ maturi per comprenderlo bene, ad esempio dei ragazzini di 14 anni dopo averlo visto hanno detto: “Tanto a me non succede, io ce la faccio”. È stato quasi un rifiuto. È invece molto utile che lo vedano genitori e allenatori proprio per saper aiutare tutti quei ragazzi il cui sogno di divenire calciatore non si realizza.
È vero che da un lato il film insegna che la carriera si potrebbe interrompere per motivi non dipendenti dal giovane calciatore, ma dall’altro sprona a dar tutto e a far sempre meglio. Ad esempio il padre di un giocatore spiega come il figlio fosse totalmente cosciente della sua bravura, tanto da poter scongiurare qualsiasi cessione a club minori. Ma le carriere calcistiche sono determinate da moltissimi fattori alieni a ciò che succede sul campo, è proprio per questo che in allenamento e in partita bisogna sempre cercare di superarsi. Bisogna conquistarsi anche ciò che si ritiene dovuto.
Rossi allena, Capponi prepara i portieri, Caterini ha giocato in categorie minori. Così come una miriade di ex giocatori si re-inventa in ruoli più o meno importanti nel calcio. Perché è così difficile lasciare del tutto il mondo del pallone?
Forse è difficile, ma loro vogliono allenare. Più che stare nel mondo del calcio, vogliono proprio il contatto col pallone, col campo, coi bambini. Ma ovviamente, in generale, è difficilissimo rinunciare al calcio: immagina un giovane calciatore che ha sacrificato tutta la propria vita allenandosi, senza aver proseguito gli studi. È normale che quando svanisce il sogno di divenire calciatore sia difficile rimboccarsi le maniche pensare al “piano B”. Ancor di più quando sei a un passo dall’affermazione in un grande club come la Roma. Secondo me questo rende i tre ragazzi del film ancora più eroici, perché si sono rialzati da questa delusione, dopo aver giocato a Wembley, in Nazionale o al fianco di Totti.
Cosa hanno da insegnare queste tre persone ai giovani calciatori?
Oltre alla grande competenza tecnica che hanno sviluppato nel corso della loro carriera, possono insegnare l’atteggiamento giusto verso il calcio. Forse più che gli attuali calciatori, a parlare di calcio nelle scuole ci dovrebbero andare persone come loro.
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Socrates alla Roma: sogno di una notte di mezza estate
Socrates in giallorosso. Forse una semplice suggestione giornalistica, al limite del provocatorio. Forse qualcosa di più concreto, magari nella testa del campione brasiliano, sicuramente meno nei piani della dirigenza giallorossa, che poche settimane dopo avrebbe portato a Roma Paulo Roberto Falcão. Tutto ciò su cui possiamo basarci, almeno per il momento, sono due pagine del Guerin Sportivo del 2 luglio 1980.
In quei giorni si cerca di dimenticare il deludente campionato europeo ospitato dall’Italia, anche grazie al calciomercato che torna al centro dell’attenzione. Quell’estate, peraltro, il tema è più caldo degli anni precedenti: le frontiere calcistiche sono state infatti riaperte e ogni club può ingaggiare uno straniero.
Sono trascorsi quasi quindici anni dal Mondiale del 1966, quando dopo l’onta di di Italia-Corea si puntò il dito contro i troppi stranieri che – si diceva – soffocavano la crescita di talenti italiani. Nell’estate del 1980, oltre al già citato Falcão, arrivarono Prohaska all’Inter, Liam Brady alla Juventus, Juary all’Avellino e Krol al Napoli.
Al Guerino si divertirono a raggiungere quello che sarà il capitano della nazionale verdeoro a Spagna’82 e a Messico ’86. È l’inviato Gerardo Landulfo che in Brasile incontra Socrates, “grande rivelazione del 1979”, dando spazio ai suoi pensieri su un eventuale trasferimento in Italia: “Là, fra l’altro, potrei frequentare un corso di perfezionamento in ortopedia tanto per migliorare le mie cognizioni ed esperienze mediche”, commenta il Dottore.

Ma se il calciatore non si spinge oltre i “forse”, è invece il Guerin a scatenare un putiferio sulla stampa brasiliana: l’inviato porge a Socrates la maglia della Roma e il brasiliano si lascia fotografare con la celebre divisa a fasce firmata da Piero Gratton. “Socrates sta lasciando il Corinthians”, “Socrates già veste la maglia della Roma”, scrivono alcuni giornali locali, come riporta lo stesso Guerin.
In fondo, anche se probabilmente non vi fu nulla di concreto, la notizia non dovette risultare così inverosimile: basti pensare che la Roma, poco dopo, comprò davvero un brasiliano dalla classe inimitabile, ma si chiamava Falcão. E non è un caso che Socrates, qualche anno dopo, in Italia ci andò davvero, ma alla Fiorentina. E stavolta non per studiare ortopedia, ma per “per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio”.

Di solito, ricordando grandi colpi di mercato non realizzati, si pratica l’esercizio mentale delle cosiddette sliding doors. Verrebbe dunque da chiedersi come sarebbero stati i primi anni Ottanta con un Socrates in giallorosso e un Falcão lontano da Roma. Ma in questo caso è opportuno notare che il destino ha probabilmente preso la strada migliore, senza lasciar spazio a rimpianti.
Difficilmente, infatti, qualcuno avrebbe potuto eguagliare lo slancio che l’ottavo re di Roma seppe dare al romanismo: quella mentalità vincente che tanto manca a una squadra troppo modesta al cospetto della storia della sua città.
Allo stesso tempo, se quell’anno Socrates fosse venuto in Italia non si sarebbe forse scritta una delle pagine più belle della storia del calcio. Nei primi anni Ottanta il dottore fu infatti protagonista della tanto utopica quanto reale stagione della Democracia Corinthiana: il suo club, il Corinthians, dimostrò al Brasile oppresso dalla dittatura che ribellarsi era possibile e doveroso.
Grazie anche all’impegno di personalità come Adílson Monteiro Alves, direttore tecnico della squadra, e a giocatori come Wladimir, Casagrande e Zenon, i calciatori e lo staff del club iniziarono a praticare l’autogestione totale: dai pasti, alle divise, ai ritiri, tutto veniva scelto dal collettivo riunito. Il Corinthians, oltre a vincere il Torneo Paulista per due volte, riuscì a imporsi come simbolo della lotta dei brasiliani per la democrazia.
Il movimento della Democracia Corinthiana seppe utilizzare il calcio come mezzo di comunicazione di massa, ad esempio scendendo in campo con slogan politici sulle maglie, sfruttando l’enorme popolarità del futebol.
“Il 15 vota”, si legge su una divisa del 1982: la cittadinanza era chiamata a sfruttare l’occasione delle elezioni municipali, concesse dal potere centrale, per mettere ancora più in difficoltà una dittatura già vacillante.
Qualche anno dopo, nell’ambito della campagna a favore delle elezioni presidenziali dirette, Socrates affermò che sarebbe stato pronto a rinunciare al suo imminente trasferimento a Firenze se il relativo emendamento costituzionale fosse stato approvato. L’emendamento non passò e Socrates venne in Italia, dove non brillò e soprattutto non fu capito. Gli anni Settanta erano finiti da un pezzo.
Si ringrazia la pagina “Storia della Roma” per aver segnalato per prima l’articolo in questione, uscito sul “Guerin Sportivo” del 2 luglio 1980.
Pubblicato su Gioco Pulito il 22 agosto 2016
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