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Tag: 2015

  • Rayo Vallecano, la classe operaia va in Oklahoma

    Non un posto qualsiasi

    A Madrid c’è un quartiere unico al mondo. Chiamarlo quartiere è riduttivo: è una porzione di città che prende dodici fermate di metropolitana, dal centro verso sud-est. Ma la questione non è solo urbanistica, perché al concetto di barrio sta stretta qualsiasi traduzione: mancano la solidarietà, la complicità e l’orgoglio che queste cinque lettere abbracciano nella loro sfera semantica. Soprattutto se il barrio in questione è quello di Vallecas.

    L’indole degli abitanti, la storia politica, la boxe e il calcio hanno reso celebre Vallecas in Spagna e nel mondo. Ma non stiamo parlando di una zona ricca, anzi: a renderla nota ai più in passato sono stati anche droga, criminalità, orrori urbanistici e altre situazioni di disagio. Le sue contraddizioni a molti fanno paura, altri amano Vallecas proprio perché in essa vivono allo stesso tempo l’antico spirito popolare madrileno e una comunità inclusiva e multiculturale.

    La sua squadra di calcio è il Rayo Vallecano, un club che da più di novant’anni vive per la sua gente, l’unico a portare mai il nome di un quartiere in Primera. Il suo stadio è il Campo de Fútbol de Vallecas, noto ai detrattori come el futbolín, il biliardino: sarà perché al posto di una curva ci sono due palazzi, sarà perché come dice il nome più che uno stadio è un campo di calcio vero e proprio.

    Oggi il Rayo, dopo cinque gloriosi anni in Primera, se ne torna in Segunda División, la serie che storicamente è la sua casa. Lo fa dopo una stagione di speranze, ma anche con i dubbi sul comportamento di alcuni giocatori, indagati dalla LFP per sospetta combine nello scontro salvezza. Lo fa dopo la tragica sconfitta ad Anoeta e la peggiore combinazione possibile di risultati delle altre squadre, punito dal solo punto che lo separa da Sporting Gijón e Granada.

    Ma non sarà questo articolo la sede del lamento per la squadra che in questi anni si è fatta amare dagli spiriti ribelli di mezza Europa. Non sarà nemmeno un tentativo di riassumere le pagine di storia sociale e politica del calcio che il Rayo e i suoi tifosi hanno scritto. Qui si racconterà la paradossale storia di come quella che probabilmente è la tifoseria più anticapitalista di Spagna si sia ritrovata strattonata da Occidente e da Oriente dalle due più grandi potenze industriali del mondo.

    Tuoni e fulmini

    Notizie di questo tipo possono giungere solo in due momenti dell’anno: il primo aprile o ad agosto. Purtroppo per i tifosi del Rayo, questa è arrivata nel mese in cui l’opinione pubblica è più distratta e l’asfalto di Vallecas si scioglie sotto il sole di Madrid. Ad annunciarlo, il quotidiano AS: «Il Rayo compra la maggioranza azionaria dell’Oklahoma City». Nei giorni a seguire arrivano le conferme: dal 2016 la NASL, seconda lega più importante del Nord America, ospiterà un nuovo club denominato Rayo Oklahoma City, simile a quello madrileno per nome, colori, maglia e stemma. Il presidente definisce l’operazione necessaria.

    Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City: «Che cos’è il Rayo?».

    Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City che sa cos’è il Rayo: «Il Rayo? Non è quella squadra in difficoltà economica da anni, che ogni stagione fa il mercato con un budget pari a zero?».

    La reazione tipo del tifoso rayista quando apprende la notizia è meglio ometterla. Sta di fatto che ad agosto 2015 del Rayo proprio non si poteva dire che fosse una società in salute. Solo un anno prima il presidente Raúl Martín Presa aveva annunciato di voler tagliare i pochi fondi che alimentavano la squadra femminile, tre volte campione di Spagna dal 2009 al 2011, scatenando una sommossa popolare.

    Sulla natura dell’accordo a stelle e strisce non ha mai smesso di gravitare un alone di mistero. Secondo El Confidencial, i diritti dell’Oklahoma City FC, defunta squadra locale che avrebbe dovuto partecipare al campionato NASL 2016, sono passati in mani spagnole per circa un milione di euro.

    Ciò che è chiaro è che da quest’anno, oltre ai Thunder della pallacanestro, Oklahoma City può annoverare tra le proprie franchigie anche il Rayo OKC. Tuoni e fulmini, neanche a farlo apposta. La speranza è che il gioco di parole sia solo frutto di una coincidenza, altrimenti la vicenda acquisirebbe contorni ancora più grotteschi.

    Il sogno americano

    Facciamo un po’ di chiarezza. Oklahoma City già ha la sua squadra di calcio da due anni: si chiama Oklahoma Energy e milita nella USL, considerata la terza lega più importante dell’America settentrionale. I verde-blu dell’Energy hanno avuto un’affluenza media di 4600 spettatori durante il 2015 e giocano all’interno dei confini della città: col tempo stanno riuscendo nell’impresa di rendere il pallone uno sport di massa anche in una città che sembrava immune all’auge del soccer.

    Il Rayo OKC fa invece parte delle tre nuove squadre che si sono da poco aggiunte alla NASL: con loro il Miami FC di Maldini, che come il Rayo OKC ha prende alla spring season 2016, e il Puerto Rico FC, che si aggiungerà a partire dalla competizione autunnale.

    La creazione di una seconda squadra nella capitale dell’Oklahoma ha creato qualche polemica tra i locali. Il calcio maschile ad alti livelli ha sempre stentato a decollare, soprattutto a causa di conflitti societari e amministrativi. I dubbi principali sorgono dal fatto che la città non è grande e che in una fase di start-up del calcio locale è inutile sottrarsi risorse a vicenda. Il Rayo OKC, peraltro, giocherà a circa mezzora di macchina dal centro e difficilmente riuscirà ad essere identificato come squadra della città: punterà sugli abitanti dell’hinterland e soprattutto sui latinos.

    Tra agosto e oggi le anticipazioni sono diventate realtà: il campionato primaverile della NASL è iniziato e il Rayo OKC naviga nella seconda metà della classifica, guidato dal canadese Alen Marcina. Nel frattempo, a Madrid non sono stati di certo a guardare. I Bukaneros, storici ultras che guidano la curva di Vallecas, hanno scritto insieme a numerose peñas un comunicato incandescente. Tifosi di ogni settore, intervistati dalla tv, hanno espresso ironicamente le proprie perplessità. L’hashtag #PresaVeteYa è tornato, per l’ennesima volta, alla ribalta sui social (sul personaggio di Presa ci sarebbero da scrivere pagine e pagine ma, anche in questo caso, non è questa l’occasione). E c’è addirittura chi ha ottenuto le bandiere rivali dell’Energy Oklahoma e le ha esposte fuori dallo stadio di Vallecas.

    Fare arrabbiare il Presidente: lo stai facendo bene.

    Poniamoci una domanda: perché mai il proprietario di uno dei club più modesti della Liga dovrebbe comprare un club negli Stati Uniti? Quella che è stata definita una maniera di portare i valori del Rayo oltreoceano è ovviamente una mera operazione commerciale. Le finalità dietro un’iniziativa del genere possono essere molteplici: sfruttare il mercato di una città in cui il soccer non è ancora maturato, conquistare tifosi/clienti oltreoceano, scoprire nuovi talenti e parcheggiare giocatori da pensionare. Senza dimenticare i piani di Javier Tebas, presidente della LFP, di far sì che anche i club che non sono Barcellona e Real Madrid si espandano nel mondo: non a caso questa estate l’Eibar compirà un tour negli Stati Uniti e l’Espanyol si farà ammirare in Bolivia. I motivi ci sono e hanno poco a che vedere con i valori del Rayo, meno che mai con la sua tifoseria…    

    Ombre cinesi

    L’asse Vallecas-Oklahoma non è il primo accordo internazionale che Martín Presa stringe senza ascoltare chi chiede una maggior concentrazione di energie verso i problemi che il club affronta ogni giorno. Sempre d’estate, ma nel 2014, una notizia aveva turbato non poco l’ambiente rayista: il Rayo avrebbe giocato la stagione con una scritta in cinese sulla maglia. L’impresa di telecomunicazioni Qbao, già proprietaria di un club a Nanchino, aveva scelto Rayo Vallecano e Real Sociedad come avamposti della sua espansione internazionale.

    Peccato che pochi sapessero che l’accordo, oltre a prevedere un’amichevole in Cina tra le due squadre (tristemente ribattezzata “il derby di Qbao”), obbligasse il Rayo ad includere nella propria rosa un giocatore cinese. È così che la scorsa estate Zhang Chengdong, discutibile talento passato anche per le giovanili del Milan, pigramente ribattezzato Dudù (non a Milano, per sua fortuna), è stato accolto come un oggetto misterioso a Vallecas.

    L’imposizione, oltre che delineare una delle infinite forme che l’ingerenza di “chi mette i soldi” può assumere nel mondo del calcio, ha mandato su tutte le furie l’allenatore Paco Jémez. Inutile dire che Chengdong non ha giocato quasi mai e a gennaio è tornato mestamente in Cina, anche se col vanto di essere stato il primo cinese nella storia della Liga.

    Raúl Martín Presa, faccia da presidente che ha stretto un accordo con una multinazionale cinese. Zhang Chengdong, faccia da calciatore soprannominato Dudù. Felipe Miñambres, faccia da ds a cui è stato imposto di comprare un giocatore cinese.

    Può esistere un Rayo americano?  

     Il Rayo Vallecano è al momento una squadra di Segunda Divisiòn spagnola con uno sponsor cinese e una filiale negli Stati Uniti. Nonostante il supposto appeal internazionale, a Vallecas la situazione è destinata a rimanere pressoché uguale: lo stadio seguirà nella sua fatiscenza, il direttore sportivo continuerà a fare mercato prendendo gli scarti di altre società, la cantera e la squadra femminile dovranno ancora cavarsela con pochi spicci, il club continuerà a non avere una pagina Facebook, lo store annesso allo stadio non venderà altro che merce dalla qualità discutibile a prezzi alti.

    E se questo, da un lato, è uno svantaggio, dall’altro il Rayo continuerà ad essere il Rayo anche per la congenita riluttanza del suo ambiente ai mali del calcio moderno. Certo, l’ideale sarebbe distinguere: una società calcistica moderna per una tifoseria d’altri tempi. Sul significato di “società calcistica moderna” potremmo dibattere per ore, ma a Martín Presa basterebbe ascoltare quello che la vox populi vallecana reclama ogni giorno. Perché, come hanno scritto i Bukaneros nel comunicato, difficilmente una squadra negli Stati Uniti attrarrà nuovi bambini e bambine del quartiere al Campo de Fútbol de Vallecas.

    Il Rayo Oklahoma City, per una stagione, è esistito davvero.

    Il titolo di questo paragrafo era una domanda, ma la risposta è ben chiara: non può esistere un surrogato del Rayo Vallecano negli Stati Uniti. O meglio, può esistere certamente una squadra fake costruita copiando tutti gli aspetti esteriori del club di riferimento: maglia nome colori e stemma, come dicevamo. Ciò che non potrà mai accadere è che una squadra costruita artificialmente comunichi gli stessi valori di cui il Rayo è fucina a Madrid. Figuriamoci se questa squadra, che non sarebbe la stessa nemmeno se spostata in un altro quartiere di Madrid, possa conservare la sua identità dall’altra parte dell’oceano. Profanando Neruda: potranno piantare tutti i fiori ma non potranno ricreare la primavera.       

    Pubblicato su Crampi Sportivi nel 2015

    * * *

  • Corinthian-Casuals, la squadra amatoriale più forte del mondo

    Ci sono storie grandiose che il tempo ha oscurato. Nascoste alla memoria dei più, perché non conformi allo stato delle cose. Pericolose, forse, perché emblema di ciò che poteva essere e non è stato. A sud ovest di Londra c’è una squadra che reclama il suo posto nella storia del calcio. Una squadra che pochi conoscono, per lo meno da questo lato del mondo. Il suo nome è Corinthian-Casuals e scriverne a riguardo mette in imbarazzo: non si sa da dove cominciare.

    Mentre mi avvicino allo stadio mi rendo conto che qualcosa non va. Dopo aver speso 11 sterline per un treno andata e ritorno dal centro di Londra a Tolworth, mi ritrovo accompagnato da Google Maps di fronte all’ingresso di un club di bocce. Bella fregatura. Intorno più campagna che città, nessuna traccia di campi di calcio, né di tifosi locali. All’improvviso intravedo un ragazzo che, zaino in spalla e telefono in mano, mi viene incontro: si chiama Rafael e viene dal Brasile. Un altro che ha preferito affidarsi alla tecnologia piuttosto che chiedere a qualcuno. Anche lui sta cercando il campo dei Corinthian-Casuals. Addosso porta i colori della sua squadra, il Corinthians Paulista. La squadra che ha conquistato l’edizione 2015 della massima serie brasiliana con 22 punti di vantaggio, sotto la guida di Tite. Sì, la vicenda si sta complicando.  

    I Corinthian-Casuals giocano all’ottavo gradino del calcio inglese, ma su Facebook il club ha più seguito di Chievo, Carpi e Frosinone messi insieme. Dall’altra parte del mondo ci sono infatti milioni di persone che non smetteranno mai di ringraziare i chocolate & pink, dimostrando il loro affetto sia distanza che di persona. Come Rafael. Sono i tifosi del Corinthians di São Paulo e quando vengono a Londra passano a salutare la loro anziana madre, alla quale devono tutto. Per raccontare questa storia bisognerà però partire da molto, molto lontano.

    Nel 1882 alcuni membri della Football Association inglese decisero di fondare un club di calcio per contrastare la potenza della selezione scozzese, i cui giocatori provenivano quasi interamente dal Queen’s Park di Glasgow: nacque così il Corinthian FC. Il neonato club vestiva di bianco ed era una squadra formidabile, tanto da distinguersi sin da subito per i meriti sportivi e per i valori dimostrati in campo. Contrari ai calci rigore, gli atleti passavano la palla al portiere invece di tirarli. Se un avversario si infortunava, preferivano giocare in dieci per garantire un confronto equo. La loro fama generò n’espressione ancora comune nel Regno Unito, quella del Corinthian spirit, una sorta di fairplay legato alla competizione amatoriale, mosso non da perbenismo ma dall’amore per il gioco corretto. Il loro ideale, ma al tempo stesso la loro condanna, fu quello di uno sport totalmente amatoriale, praticato da gentiluomini come gioco e non come mestiere.

    Contrari a competere con formazioni professionistiche, preferivano girare il mondo per insegnare il beautiful game. Con più di 34 tournée in 41 anni, svolsero il ruolo di missionari del calcio, influenzando in maniera estremamente profonda il futuro del pallone in ogni paese che visitavano. Di esempio ne basta uno: nel 1902 i fondatori del Real Madrid, entusiasmati dalla celebre squadra inglese, decisero che il loro club avrebbe indossato la stessa divisa bianca, che li avrebbe poi resi le merengues.

    Tuttavia, non dobbiamo immaginare i membri del Corinthian FC come degli Harlem Globetrotters ante litteram, ossia una squadra che girava il mondo con il solo scopo di intrattenere gli spettatori. Essere un club amatoriale al tempo non significava affatto dover rinunciare a competere con i migliori. Tra i successi, la squadra londinese può annoverare vittorie contro selezioni nazionali di Brasile, Olanda, Belgio e Sudafrica. Nel 1894, per ben due volte, l’intera formazione della nazionale inglese fu composta da soli suoi giocatori. E non è un caso se il Manchester United non ha ancora sperimentato sconfitta peggiore di quella rimediata col Corinthian per 11-3 nel 1904.

    Ma torniamo a dove eravamo rimasti, ovvero alla storia di un ragazzo brasiliano che, in visita a Londra, si reca a vedere una squadra di ottava categoria nel sobborgo londinese di Kingston-upon-Thames. Non bisogna stupirsi se nel 1910 i suoi avi, un gruppo di operai di origine europea, decisero di fondare una squadra di calcio di e per la classe operaia di São Paulo, ispirandosi a quella squadra inglese che in tournée stava sconfiggendo tutte le migliori compagini brasiliane: l’1 settembre 1910, nel quartiere di Bom Retiro, sotto la luce di un lampione, nacque lo Sport Club Corinthians Paulista.

    Ed è proprio la luce dei lampioni, o meglio dell’impianto di illuminazione del campo, a guidare me e Rafael fino alla meta. Il trattamento è dei migliori: grazie alla sua maglia, ci viene concesso lo sconto sul biglietto e veniamo addirittura accompagnati alla scoperta del centro sportivo. Il campo in erba è a dir poco stupendo, da far invidia a quelli della Serie A. La clubhouse, proprio dietro la tribuna principale, è anch’essa una scoperta eccezionale. Un tradizionale pub inglese arredato come un museo del club, pieno di foto d’epoca, trofei, gagliardetti, foto dei tifosi e vecchi articoli di giornale. Famiglie con i figli, tifosi ospiti e locali, anziani di zona e giovani brasiliani con indosso i simboli della propria torcida bevono le birre della casa e aspettano il momento di prendere posto per la partita.

    l campo ha tre piccole tribune. Io e Rafael ci sediamo in quella sul lato lungo del campo, strategica per la vicinanza al bar, assieme alla maggior parte dei tifosi. Attorno a noi si sistemano le famiglie, gli anziani, qualche giornalista e tutti i tifosi che si godono da seduti il loro appuntamento con la non-league. Alla nostra sinistra, dietro una delle porte, i tifosi ospiti: sono venuti da Folkestone, non lontano dalle bianche scogliere di Dover, percorrendo più di 100 chilometri. Ogni tanto tentano di far sentire la propria voce, ma il loro canto viene ripetutamente coperto da quello del settore più caldo dei tifosi di casa. Dalla parte opposta del campo, dietro un enorme striscione che in brasiliano recita grazie per far parte della nostra storia, un gruppo di brasiliani e i tifosi inglesi sostiene la squadra senza fermarsi.

    I chocolate & pink perdono per 0-1 contro una squadra che è destinata a lottare per la promozione. Si rifaranno nel giro di qualche ora, quando giocatori e tifosi di entrambe le squadre si riuniranno nella clubhouse per guardare l’Inghilterra fare 6 goal al San Marino e qualificarsi agli Europei. Anche noi, dopo il triplice fischio, ci dirigiamo in quello che è il cuore del centro sportivo: non il campo di calcio, non le tribune, ma il bellissimo pub della squadra di casa. La porta di accesso è fatta in maniera tale da mettere chiunque vi entri di fronte alla storia del club: aprendola, ci si trova faccia a faccia una foto scolorita di Socrates in campo con la maglia marrone e rosa. Già. Sócrates, il “Dottore”, il giocatore che vinse due scudetti con il Corinthians Paulista praticando l’autogestione della rosa, ha giocato – seppur per solo quindici minuti – con la maglia dei Casuals londinesi.

    L’occasione fu quella di un’amichevole giocata a São Paulo, quando la formazione brasiliana ospitò quella a cui deve nome e colori. Nessuno dovette giocare con la seconda maglia, perché i londinesi indossavano la chocolate & pink già da decenni, ovvero da quando nel 1939 si fusero con il Casuals FC, assumendone i colori inusuali. In quella storica partita, vecchie glorie del Corinthians – tra cui Rivelino, nella sua unica apparizione in campo al fianco di Socrates – intrattennero i 15.000 spettatori e sancirono definitivamente il gemellaggio fra le due squadre, separate dall’Oceano Atlantico e da numerose categorie calcistiche.

    Socrates si cambia la maglia e gioca con i Corinthian-Casuals

    Seduto di fronte a una pinta di bitter, conosco Stuart, che nel tempo libero si occupa dell’area stampa e media del club. Mi descrive come funzionano le cose nel club, mi parla del suo impegno e quello di molti altri tifosi volontari. Ma soprattutto, mi racconta dell’eroica spedizione che nel gennaio 2015 ha visto lui, la squadra, la dirigenza, molti tifosi e le rispettive famiglie riportare in Brasile il Corinthian-Casuals FC per un’altra amichevole dopo quella del 1988. Mi descrive il viaggio come un’impresa, mi fa capire cosa possa significare per un club amatoriale organizzare una trasferta oltreoceano.

    Il giorno dopo Uruguay-Inghilterra, giocata proprio a São Paulo durante i mondiali 2014, ricevemmo una valanga di foto di brasiliani allo stadio con la maglia del Corinthian-Casuals. Ci rendemmo conto di quanto ancora fosse forte il sentimento che legava i tifosi brasiliani al nostro club, così decidemmo di realizzare la folle idea. D’altronde, l’anniversario da celebrare c’era: cento anni prima, un gruppo di gentleman inglesi vestiti di bianco raggiunse in nave il Brasile per una tournée. Ma, appena arrivati, furono informati dello scoppio della Prima Guerra Mondiale e decisero di tornare per servire la loro patria. Buona parte di loro morì in battaglia.

    Stuart e tutta la comunità del Corinthian-Casuals sono partiti per il Brasile a testimoniare quanto ancora sia vivo il legame fra i due club. Nell’epoca della comunicazione facile, grazie all’accesso ai canali social e ai video della squadra, i tifosi brasiliani hanno sviluppato un senso di gratitudine e amicizia ancora più forte verso quelli inglesi, a tal punto da superare quanto già dimostrato nel 1988. Un gratitudine che, appena atterrati, gli inglesi hanno modo di sperimentare sulla propria pelle.

    Appena arrivati all’aeroporto ci ritrovammo sommersi da una folla di tifosi brasiliani festanti. Incredibile! Noi, una squadra che gioca all’ottavo livello del calcio inglese, accolti così in Brasile! Il giorno dopo c’era la mia faccia e quella di tanti altri dei nostri sui principali giornali sportivi. All’allenamento c’erano 4.000 persone a vederci. Allo stadio più di 30.000. Sono state emozioni che segneranno per sempre le nostre vite e quella del club.

    In quella partita, una formazione in cui giocavano un decoratore, un commesso e un poliziotto ha mantenuto per 78 minuti il risultato sullo 0-0 contro uno dei club più importanti del Sud America. In quella partita, i tifosi del Corinthian-Casuals hanno capito che, in fondo, nulla nella loro storia era stato sbagliato. Che i sacrifici non erano stati vani. La squadra che ha segnato un’epoca si è condannata a una vita di alti e bassi in nonleague in nome del gioco amatoriale, ovvero quello giocato dagli amatori e per gli amatori del calcio, senza essere un mestiere. Quasi ignorata in patria, ha trovato il suo riscatto nell’amore di decine di migliaia di tifosi brasiliani, che a lei devono tutto. Il Corinthian-Casuals FC, la squadra amatoriale più forte che il mondo abbia mai visto. Obrigado por fazer parte da nossa história.

    Pubblicato su Crampi Sportivi nel 2015

    * * *

  • Clapton FC, da Londra Est con furore

    Proudly East London. Spesso bagnato dalla pioggia, più raramente illuminato dal sole, lo striscione campeggia in alto su quella che viene chiamata Scaffold Stand. Traducendo, potremmo chiamarla la Tribuna Ponteggi: un nome, un programma.

    Già, non siamo al Boleyn Ground. Nonostante la casa del West Ham disti solo una ventina di minuti a piedi da qui, la Premier League sembra lontana. Con i suoi prezzi inavvicinabili, i suoi diritti tv, i suoi posti a sedere, i suoi gadget, i suoi steward, i suoi vizi e i suoi campioni.

    Questo è Forest Gate, quartiere di Londra Est, e la struttura che ospita la squadra locale stenta a rientrare nella definizione di stadio. The Old Spotted Dog Ground è semplicemente un campo di calcio. La minuscola tribuna con posti a sedere e la gradinata sorretta da impalcature metalliche si guardano dai lati opposti di un campo in erba a tratti scosceso. Intorno, un misto irregolare di paesaggio urbano e naturanasconde quasi del tutto il campo alla vista dall’esterno. Qualche bambino fortunato può passare i pomeriggi in giardino godendosi lo spettacolo con le mani aggrappate alla rete che divide il suo backyard dal campo di calcio.

    Oh East London is wonderful
    Oh East London is wonderful
    It’s full of pies, mash and Clapton
    Oh East London is wonderful…

    Nonostante la decadenza, il Campo del Vecchio Dalmata può vantare record non da poco nei suoi annali. Si dice sia il più antico campo di calcio di Londra, e ospita la stessa squadra amatoriale dal 1888. Una squadra fondata nel 1878 nel quartiere di Clapton, di cui ancora porta il nome, seppur da quasi 130 anni giochi a qualche miglio di distanza: a nessuno è mai venuto in mente di cambiarglielo per un po’ di seguito in più nel quartiere. E’ stata fondata da un gruppo di amici come divertimento e, più o meno, la storia fino ad oggi non è mai cambiata. Stiamo parlando del Clapton Football Club.

    Nonostante la decadenza, il Campo del Vecchio Dalmata può vantare record non da poco nei suoi annali. Si dice sia il più antico campo di calcio di Londra, e ospita la stessa squadra amatoriale dal 1888. Una squadra fondata nel 1878 nel quartiere di Clapton, di cui ancora porta il nome, seppur da quasi 130 anni giochi a qualche miglio di distanza: a nessuno è mai venuto in mente di cambiarglielo per un po’ di seguito in più nel quartiere. E’ stata fondata da un gruppo di amici come divertimento e, più o meno, la storia fino ad oggi non è mai cambiata. Stiamo parlando del Clapton Football Club.

    Immaginando un viaggio dantesco nel calcio inglese, il nostro Virgilio ci direbbe che ci troviamo al nono strato della football pyramid, cioè a nove serie di distanza dalla Premier League e a cinque da quella linea che divide il calcio professionistico dalla non-League. Il Clapton oggi compete nella Essex Senior League, che riunisce principalmente club di Londra Est e dell’Essex. Ma questo non è un luogo in cui i biancorossi si sentano storicamente a proprio agio. La squadra detiene infatti il record di permanenza nella lega superiore, l’Isthmian League: esattamente un secolo ininterrotto, dal 1905-06 fino alla retrocessione al livello attuale nel 2005-06.

    Questa competizione dal nome classicheggiante, ispirato ai Giochi Istmici dell’antica Grecia, fu fondata proprio dal Clapton e poche altre squadre nel periodo in cui il Movimento Olimpico stigmatizzava il professionismo nello sport, richiamandosi al disinteresse degli atleti dilettanti del mondo classico. Assieme alle defunte Athenian, Corinthian e Delphian Leagues ci ricorda che c’era chi pensava – e c’è ancora – che il dilettantismo sia la maniera migliore di praticare il calcio.

    Di primati e fatti memorabili, il Clapton ne ha collezionati sin troppi. Un documento ufficiale della FA riconosce che è stata in assoluto la prima squadra inglese a visitare il continente europeo, quando nel 1890 si recò in Belgio per sconfiggere 0-7 una rappresentativa nazionale. Nel 1913, si rese protagonista di un tour dell’Impero Austro-Ungarico, poco tempo prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Nel 1927, viaggiò invece in Olanda per rifilare un sonoro 1-4 ai giganti dell’Ajax, che poi avrebbero ricambiato la visita vincendo per 0-2.

    Everywhere we go
    Everywhere we go
    Clapton girls and boys
    Making all the noise
    Everywhere we go…

    Ma oggi, ciò che rende famoso e addirittura di tendenza il Clapton a Londra non sono i suoi primati storici, né la sua bacheca ricca di trofei. Infatti la media presenze per le partite in casa del club nella stagione 2012-13 era di sole 43 persone, mentre quella del 2014-15 è stata di 186, con picchi di 400-500 tifosi.

    Cosa è successo nel frattempo? Sono nati i Clapton Ultras.

    Considerare ultras all’italiana un gruppo di supporters inglesi può essere fuorviante, o forse riduttivo, eppure è questo il nome che hanno deciso di reinterpretare liberamente, ispirandosi ai colori, ai canti e alla passione delle tifoserie italiane. A differenza di molti stadi inglesi, infatti, all’Old Spotted Dog non è raro vedere bandiere, stendardi, striscioni, fumogeni e tamburi. Allo stesso tempo, la Scaffold Brigada (altro nome con cui si fanno chiamare) si ispira esplicitamente a tifoserie storicamente antirazziste e solidali come quelle del Sankt Pauli o del Celtic.

    In un misto perfetto di impegno politico e goliardia, i Clapton Ultras sostengono incessantemente i propri giocatori durante ogni incontro, con un repertorio di canti e piccole tradizioni da far invidia a molti gruppi organizzati. Sicuramente, a sognare un tifo così sono tutti gli avversari del Clapton nella Essex Senior League, che a fine partita rivolgono sempre un applauso stupito ai tifosi biancorossi.

    Farsi un giro nella Scaffold durante una partita del Clapton è un’esperienza mistica. Che le tifoserie organizzate tendano ad eleggere una bevanda alcolica a “sponsor ufficiale” è un’usanza diffusa (vedasi in Italia con Peroni e Borghetti), ma qui non si è scelto né una tradizionale ale inglese, né la diffusissima Foster’s. A dissetare le gole dei Clapton Ultras ci pensano lattine su lattine di Tyskie, lager polacca facilmente reperibile nell’off-licence dall’altro lato della strada, alla quale è stato dedicato anche uno striscione, nonché numerosi cori.

    Woke up in the morning drank a can of Tyskie
    Down at the Old Spotted Dog it’s a whiskey
    Ohh – the Claptonites!

    La composizione sociale della Scaffold è delle più eterogenee possibili e dà un quadro perfetto di cosa significhi il Clapton FC oggi. La maggioranza dei tifosi, ovviamente, sono giovani inglesi di ogni tipo (very clever students, come li definisce il Presidente del club). Ragazze e ragazzi che qui hanno trovato ciò che cercavano: chi era stanco della Premier League, chi attratto dall’attivismo politico, chi ha deciso semplicemente di tifare la squadra del proprio quartiere.

    Non mancano, però, i padroni di casa di ogni stadio inglese: quella schiera di grossi padri di famiglia, con la polo che tira sulla pancia, che hanno l’aria di seguire la squadra da ben prima che i Clapton Ultras la riportassero sulle cronache dei giornali, e che forse preferiscono una pinta di ale alla Tyskie in lattina.

    Ma ciò che colpisce di più è che la Scaffold, quasi fosse una cartina al tornasole della Londra multiculturale, presenta delle vere e proprie comunità etniche al suo interno. In alto a sinistra, la comunità polacca è facilmente riconoscibile per le lunghe barbe e i dilatatori che contraddistinguono i suoi elementi (avranno importato loro la Tyskie?).

    In basso, dove parte la maggior parte dei cori, è molto più facile sentir parlare spagnolo e italiano che inglese. Sono ragazzi partiti per Londra come molti altri, in cerca di lavoro o per un’avventura, che si sono portati appresso l’amore per la propria curva di appartenenza e per il tifo allo stadio “a una certa maniera”: la prima settimana a Londra hanno speso 50 sterline per andare a vedere una partita del Chelsea e hanno constatato che sarebbe stato più entusiasmante guardarla in streaming. Sono loro il cuore caldo della gradinata.

    Gli italiani all’estero sono tra i più comunitari, si sa. Sarà per questo è nata da poco la Brigata Italiana, una sorta di sotto-sezione dei Clapton Ultras, con tanto di sciarpe e adesivi. Il logo? Il tre di bastoni delle carte da briscola con lo stemma del club.

    Come per ogni gruppo che si rispetti, le attività dei Clapton Ultras non cessano al 90° minuto. A fine partita non escono a cercare gli scontri con i tifosi avversari (ma poi: quali tifosi?), ma organizzano raccolte di cibo per i rifugiati e campagne contro l’omofobia sugli spalti. Pensano globale ma agiscono locale: l’Old Spotted Dog Inn, storico pub subito fuori dal campo di calcio, è abbandonato da anni. Qualche tempo fa ne hanno ripulito i dintorni assieme ai residenti del quartiere, per rivendicarne la riapertura.

    A giugno hanno organizzato un torneo di calcio a 7 chiamato Proudly East London, con lo scopo di combattere il razzismo che ancora ogni tanto colpisce il versante più multiculturale della capitale inglese. Tra le tante rappresentative che vi hanno preso parte, oltre a quelle del Clapton FC e dei Clapton Ultras, anche quella del FCUM London Supporters e le squadre gay-friendly East End Phoenix e Stonewall.

    I am a Clapton fan
    I am from East London
    I know what I want and I know how to get it
    I’ll follow the Tons until I’ll die
    Cos’ I wanna be… At Clapton FC!

    Per ciò che riguarda l’immaginario antirazzista, la storia del club viene incontro ai Clapton Ultras: uno dei più prestigiosi giocatori ad aver vestito di biancorosso è Walter Tull, il secondo calciatore professionista di colore nel Regno Unito e il primo ufficiale di colore nella storia dell’esercito britannico. A quanto pare, è in arrivo un film sulle sue gesta, dall’infanzia nell’orfanotrofio di Bethnal Green fino alla morte al fronte durante la Prima Guerra Mondiale. Non a caso, uno dei migliori stendardi visti nella Scaffold rappresenta una delle classiche targhe commemorative blu londinesi, ricordando i trascorsi di Tull all’Old Spotted Dog Ground.

    Arriviamo dunque a risolvere un dubbio che sicuramente è sorto sin dalle prime righe: perché mai un campo di calcio dovrebbe essere intitolato a un vecchio dalmata?

    Per risalire alle origini del nome, dobbiamo tornare a quando Forest Gate era davvero foresta, e il terreno di gioco altro non era che la tenuta in cui Enrico VIII si recava a cacciare con i propri cani.

    Gli scherzi del destino. Tra il campo di Enrico VIII e quello di Anna Bolena ci sono una passeggiata a piedi lungo Green Street e otto serie di distanza. Eppure nessuno allo Spotted Dog sente la mancanza della Premier League.

    Pubblicato nel 2015 su Crampi Sportivi

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