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Categoria: AS Roma

  • Campo Testaccio, c’avrai tanta gloria

    Ne ha avuta tanta e tornerà ad averne almeno un po’. Ma oggi a Campo Testaccio la gloria non si respira. Ribrezzo, rabbia, disillusione, stupore sono alcune delle sensazioni che si possono provare al passaggio in via Zabaglia. La gloria c’è, ma rimane nel cuore dei pochi che hanno visto e dei tanti che hanno letto, ascoltato o sognato le gesta della Roma testaccina.

    Questo rettangolo di città è abbandonato da più di dieci anni. E i richiami a un passato di gloria sono solo l’ultimo dei motivi per cui dovrebbe tornare a vivere.

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  • L’addio al calcio di Totti raccontato da Copa90

    Ho avuto il piacere di partecipare al video realizzato da Copa90 per l’addio di Francesco Totti, poi condiviso dal numero 10 sui propri social.

    Il post su Facebook di Francesco Totti

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  • La Roma è stata invitata in Spagna per rievocare l’assedio di Numanzia

    I romanisti, a volte tacciati di mitomania, si cimentano spesso nel relazionare le partite della squadra capitolina alle imprese belliche dell’Impero Romano. Basta una trasferta in Gran Bretagna per chiamare in causa il Vallo di Adriano e una a Bucarest per rievocare Traiano e la conquista della Dacia. L’estate 2017 potrebbe avere in serbo una bella sorpresa.

    Il presidente del CD Numancia, club di seconda divisione spagnola, ha intenzione di sfidare la Roma nell’anno del 2150° anniversario della conquista romana della città di Numanzia. La partita rientrerebbe nelle celebrazioni organizzate per l’anno prossimo dalla città di Soria, il più importante centro abitato nei dintorni delle rovine di Numanzia, nonché sede del club il cui nome rievoca l’antica città celtibera.

    La città fortificata di Numanzia fu l’ultimo baluardo delle popolazioni celtibere contro l’espansionismo romano nell’odierna Spagna. La sua caduta rappresentò l’ultimo atto delle cosiddette Guerre celtibere, che impegnarono i romani per circa cinquant’anni. Celebrare una sconfitta può sembrare insolito, ma l’assedio di Numanzia è ricordato ancor oggi con grande orgoglio dai locali. Nel 133 a.C. i numantini, a secco di provviste per via dell’estenuante assedio, decisero di dar fuoco alla città e di uccidersi l’un l’altro piuttosto che sottomettersi ai romani. Le truppe di Scipione Emiliano non poterono far altro che impossessarsi di un cumulo di macerie fumanti e corpi senza vita.

    Le celebrazioni del 2150° di questo tragico atto bellico avranno, come si può leggere sul sito del comune di Soria, l’obiettivo di «ravvivare il grido di libertà del popolo numantino» e di «recuperare lo spirito di resistenza» che li ha resi famosi nel mondo. Di conseguenza la partita Numancia-Roma, con tutti i significati simbolici di cui si farà carico, potrebbe rivelarsi una rievocazione storica anche in campo: i romani, enormemente più forti, costretti a faticare per sconfiggere un avversario disposto a tutto pur di non arrendersi.

    Il presidente del club Francisco Rubio, intervenuto durante l’assemblea degli azionisti lo scorso 19 dicembre, ha ribadito che si continua a lavorare per organizzare la partita. Il primo annuncio lo aveva dato questa estate, durante l’evento di presentazione della squadra: «Dopo 2150 anni sconfiggeremo Roma. E ciò accadrà nel nostro stadio».

    L’ufficio stampa del club castigliano non vuole però rilasciare ulteriori informazioni. «Il nostro Presidente ha l’obiettivo di portare la Roma a giocare la nostra partita di presentazione. Non possiamo dire null’altro, ma siamo fiduciosi», fanno sapere.

    Raul Alonso, giornalista locale di EsRadio, ci dice la sua: «Conoscendo il Presidente, se ha annunciato più volte che si sta lavorando a questa amichevole, lo ha fatto perché sa che non è una possibilità campata per aria. Credo che la situazione sia ad un punto abbastanza avanzato, altrimenti non lo avrebbe detto davanti ai tifosi. E lui di solito non è una persona che dice le cose tanto per dirle. Probabilmente manca ancora l’ufficialità perché stanno risolvendo questioni legate alla data o ai costi. O forse perché vogliono annunciare le iniziative di “Numancia 2017” tutte insieme: d’altronde è ancora presto per parlare di questa estate».

    Mancano otto mesi, ma a Soria già si lavora per rendere possibile il sogno di una “rivincita”. La partita avrà poco appeal per gran parte del tifo romanista, ma appassionerà certamente gli amanti della storia romana e quei tifosi di cui si parlava al principio. Al contrario, ospitare la Roma sarà motivo di entusiasmo per i tifosi di seconda divisione spagnola. Sperando che non chiedano ai romanisti di presentarsi allo stadio vestiti da legionari.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 26 dicembre 2016

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  • Una nuova speranza per Campo Testaccio

    È iniziato il percorso che, se rispetterà attese e promesse, restituirà Campo Testaccio ai romani. Nella giornata di ieri, giovedì 22 dicembre, si è svolta la riunione del Consiglio del Primo Municipio romano, alla quale ha preso parte anche l’assessore capitolino allo sport Daniele Frongia. La seduta si è svolta all’interno della biblioteca “Enzo Tortora”, centro culturale del comunale con vista sull’area in questione. All’ordine del giorno un solo punto: riqualificare il campo dell’AS Roma. Di fronte a numerosi cittadini e associazioni, il Consiglio ha approvato all’unanimità una mozione che ben rappresenta le prospettive urgenti e quelle più a lungo termine.

    L’urgenza è data dalle pessime condizioni di igiene e sicurezza di tutta l’area, dovute al degrado che ormai regna scandalosamente nell’area che fu la casa dell’indimenticabile Roma testaccina. Il terreno dove un tempo sorgeva il celebre stadio in legno, e più recentemente l’unico campo di calcio pubblico del centro di Roma, è ormai una giungla incolta e poco rassicurante per l’asilo nido e le due scuole che vi si trovano accanto. La chiusura della materna “Biocca” per le incursioni dei topi è stato solo l’ultimo degli episodi, dopo che un anno fa aveva fatto capolino persino un serpente. La prima richiesta che la presidente del Municipio Sabrina Alfonsi ha fatto al Comune è dunque quella di emettere urgentemente un’ordinanza per la bonifica dell’area. Richiesta che, nelle parole dell’assessore Frongia, verrà soddisfatta il prima possibile.

    Ma la bonifica è solo il primo passo. Per salvare Campo Testaccio occorre anche dirimere alcune questioni burocratiche. «Al momento non è classificato come campo sportivo, ma come parcheggio», ha dichiarato Frongia. «Spingeremo presso avvocatura e ragioneria affinché venga espunto dal Piano Urbano Parcheggi. Poi potrà tornare ad essere classificato come campo sportivo con una delibera dell’Assemblea Capitolina».

    Al di là di questo primo ostacolo, apparentemente facile da scavalcare, i consiglieri municipali chiedono che venga attivato un tavolo che veda le istituzioni, le associazioni interessate e i cittadini progettare insieme il futuro dell’area, che verrà con tutta probabilità messa a bando. La presidente Alfonsi non ha precluso alcuna possibilità: «Il progetto potrebbe essere finanziato interamente dal Comune così come dal privato, o anche da entrambi insieme. Ci sono realtà come l’AS Roma o il CONI che potrebbero essere interessate a partecipare».

    L’assessore Frongia ha confermato la disponibilità da parte del Comune ad ascoltare le istanze del territorio, anche se è presto per poter parlare dettagliatamente del futuro dell’area. Ciò che è stato confermato da tutte le forze politiche è che la destinazione d’uso rimarrà quella di campo di calcio. Sul resto, dalla capienza degli spalti all’eventuale realizzazione di uno spazio espositivo che renda onore alla storia del luogo, la partita è ancora tutta da giocarsi. 

    Frongia ha inoltre sottolineato che solo dopo la classificazione dell’area come campo sportivo si potrà procedere contro l’occupazione senza titolo da parte del privato. Il terreno è infatti ancora rivendicato dal Consorzio Romano Parcheggi, l’impresa che aveva vinto la concessione per realizzare un parcheggio interrato, poi definitivamente revocata l’anno scorso con le sentenze del TAR e del Consiglio di Stato. «La ditta – ha spiegato l’assessore – è tenuta inoltre a risarcire il Comune per una cifra che, solo per ciò che riguarda il livellamento della buca e il ripristino del campo di gioco, ammonta a un milione e trecentomila euro. Parliamo di un’azione civile che va da uno a tre anni, ma ciò non significa che non faremo nulla fino a quel giorno, perché è un percorso che va in parallelo».

    Proprio per questo, tra le richieste presentate dai consiglieri nella mozione, vi è quella di impegnare nel bilancio di Roma Capitale i fondi destinati al livellamento della buca e al ripristino del campo di calcio, da recuperare successivamente presso il privato. Ma per Frongia «non si può ancora fare, perché l’area non rientra ancora tra gli impianti sportivi comunali».

    «Direi di rivederci presto, convocando il tavolo pubblico e per iniziare a parlare del futuro dell’area. Ma ancora prima sarà fatta l’ordinanza per la bonifica» ha concluso il rappresentante del Campidoglio.

    Riassumendo, gli step per il recupero di Campo Testaccio sono questi: bonifica urgente dell’area; espunzione dal Piano Urbano Parcheggi e poi classificazione come campo sportivo. Nel frattempo, un tavolo partecipato permetterà di discutere del suo futuro e di farsi trovare pronti con le proposte quando sarà il momento di mettere a bando l’area. Il percorso non è semplice, ma il clima di collaborazione tra i diversi schieramenti politici e tra le due istituzioni fa ben sperare. Che Campo Testaccio abbia messo d’accordo tutti? Al momento sembrerebbe di sì, ma parleranno solo i fatti. Ormai il Primo Municipio e il Comune di Roma si sono esposti e dovranno rendere conto ai cittadini del futuro di quell’area.  

    Pubblicato su Gioco Pulito il 23 dicembre 2016

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  • Il calcio di Giacomo Losi: “In campo valori e umiltà, sugli spalti amore e ombrellate”

    Conoscere di persona i campioni del passato fa un certo effetto. Ancor di più se ci si trova davanti Giacomo Losi, quindici stagioni nell’AS Roma dal 1954 al 1969, terzo per presenze dopo Totti e De Rossi. Mai un’espulsione in carriera, un solo cartellino giallo proprio durante l’ultima partita.

    L’effetto è amplificato se il tutto accade nell’angusto spogliatoio di un campo di calcio romano, dove ogni sabato mattina “er Core de Roma” dirige gli allenamenti dell’ItalianAttori. Losi ha portato con sé un oggetto speciale. Avvolta in un foglio di carta, dal suo borsone estrae la riproduzione in scala della Coppa delle Fiere che sollevò nel 1961: “Tiè, lo sai che è questa?”. È l’esemplare in miniatura che consegnavano solo ai capitani delle squadre vincitrici.

    Lo scorso 11 ottobre è ricorso l’anniversario della vittoria della Coppa delle Fiere del 1961, unico trofeo internazionale vinto dalla Roma oltre al Torneo Anglo-Italiano. In carriera lei ha inoltre vinto due coppe nazionali. L’odierna Europa League e la Coppa Italia sono oggi competizioni sottovalutate?
    Chi le sottovaluta sbaglia. Questo è l’unico trofeo europeo vinto dalla Roma. [Mi porge la replica della Coppa delle Fiere, nda]. Uno deve scendere in campo sempre con l’idea di vincere. Io se potevo vincere anche la Coppa del Nonno, davo tutto e cercavo di trasmetterlo ai miei compagni. In Svizzera giocammo la Coppa delle Alpi: io volevo vincerla, anche se era considerata una competizione secondaria. Sai, noi romanisti abbiamo poco da fare gli schizzinosi.

    Quanto sono cambiati i calciatori dai tempi in cui lei giocava?

    Moltissimo. In generale c’era più umiltà. Oggi molti sono orientati più al proprio tornaconto che a quello del gruppo. Pensa che io giocai il ritorno di Roma-Hibernian, semifinale di Coppa delle Fiere, il giorno dopo aver giocato in Nazionale. Arrivai al ritiro pre-partita e l’allenatore mi chiese: “Te la sentiresti di giocare?”. E io: “Subito!”. Poi lo chiese agli altri che risposero: “Magari!”. E chissà come sarebbe andata senza di me, visto che sul pareggio salvai un goal sulla linea permettendo alla Roma di giocare la bella, che vincemmo 6-0.

    E i tifosi come sono cambiati?
    I tifosi oggi sono più polemici, si sentono tutti allenatori. Ai miei tempi c’era il vero amore incondizionato. Andavano allo stadio per vedere la partita, tutta la famiglia, con le pagnottelle da mangiare. L’Olimpico era pieno anche se giocavamo contro la Pro Patria. Oggi la partita non è più il “rito sacro” che diceva Pasolini, lo stadio non si riempie nemmeno al derby. L’ultima volta che sono andato guardavo gli spalti semivuoti e mi faceva impressione. Non si fa nulla per avvicinare i tifosi.

    Poi, questa storia delle barriere nelle curve dell’Olimpico è assurda. Come se c’entrassero qualcosa con la violenza. Ai tempi miei c’erano le vere risse sugli spalti, ma non gli si dava tutta questa amplificazione mediatica. Oggi invece se ogni tanto c’è una scazzottata viene montata da giornali e tv come fosse la fine del mondo. Ai tempi miei sai le ombrellate che volavano! Ma mica se ne accorgeva nessuno, finiva lì.

    Lei con Pasolini ci ha giocato, vero?

    Ci ho giocato e l’ho allenato, perché già al tempo allenavo la Nazionale Attori. Nel 1971 giocai con lui una partita allo Stadio Flaminio: ex giocatori di Roma e Lazio contro attori. In quell’occasione lo marcavo, era un giocatore modesto, ma innamorato di questo sport. La cosa bella è che non faceva pesare la sua personalità: lui era Pasolini cazzo, ma non ce ne accorgevamo.

    Avevamo molto in comune, se ci penso. Entrambi negli anni Cinquanta eravamo venuti dalla provincia del Nord in questa enorme capitale col cuore pieno di speranza. Tutti e due ne siamo divenuti un simbolo.

    Eravamo entrambi due antifascisti: io da piccolo portavo le munizioni ai partigiani che dalle mura sparavano ai nazisti, mio padre era facchino e mia madre filandiera. Nonostante ciò parlammo sempre e solo di calcio, mai di politica. Con lui era così. Oggi l’Italia avrebbe bisogno di un intellettuale come lui, anche lo sport ne beneficerebbe.

    La dirigenza dell’AS Roma secondo lei sta valorizzando la memoria del club?

    Qualcosa hanno fatto, come la Hall of Fame, ma si potrebbe fare di più. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato. I giovani devono imparare la storia, e invece i tifosi di oggi non sanno nemmeno come è nata l’AS Roma. Anche Campo Testaccio è scandalosamente abbandonato. Per me, da romanista, quel campo è una reliquia: ci vorrebbe un maggiore sforzo per salvarlo.

    Lei ha una scuola calcio a Valle Aurelia. Com’è il calcio di base a Roma?

    Il comportamento dei ragazzini è diverso dai tempi miei. Molti genitori pensano di avere in casa un Totti o un Pelè. I miei non sapevano nemmeno che andavo a Cremona a giocare, non so se mi spiego. Ed avevo sedici anni! Mai che mio padre m’avesse detto: “T’accompagno io”. Era impossibile che la cosa si esasperasse, si restava coi piedi per terra.

    Oggi invece tutto è esasperato. Questo rovina i tifosi e i giovani appassionati. I bambini di oggi non hanno con la passione del calcio come sport, hanno la passione del calcio come spettacolo televisivo, o videogioco, quelle cose elettroniche là.

    Così si perdono i valori del vero calcio, quindi non mi stupisco che ci sia il doping anche tra i giovani delle categorie amatoriali. Alcuni ne approfittano, altri sono ingenui e pensano che queste cose gli facciano bene. Io le pasticchette di Herrera le buttavo per terra, lui non mi accettò anche per questo.

    Cosa insegna ai bambini?
    La prima cosa che insegno sul campo è l’educazione. Mi piace che in campo si comportino bene perché se lo fanno in campo lo fanno anche nella vita. Quando presi il mio primo ed unico cartellino giallo, durante la mia ultima partita, l’arbitro mi chiese scusa, perché sapeva che ci tenevo. Ma era meritato, mi avevano lasciato solo là dietro e io ne dovevo tenere due.  

    Come divenne amico di Di Stefano?

    Fu nel 1956, durante una tournée in Venezuela con Real Madrid, Porto e Vasco da Gama. Stavamo nello stesso albergo, alla mensa ci davano il minestrone. Il nostro massaggiatore Cerretti portò da Roma un sacchetto di Grana Padano per usarlo durante i pasti. Di Stefano dal tavolo del Real Madrid vedeva che mettevamo il formaggio sulla minestra, mi si avvicinò e mi disse: “Cos’è quello?”. Glielo feci assaggiare e mi chiese come poterlo avere a casa. “Dammi il tuo indirizzo e te lo spedisco”, dissi io. E gli mandai una forma di Grana. Da quel giorno diventammo amici. Lui è uno dei più grandi giocatori mai esistiti, un simbolo di un calcio ormai andato.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 13 ottobre 2016

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  • Che fine hanno fatto i compagni di giovanili di Totti?

    “Zero a zero” è un film documentario diretto da Paolo Geremei. Racconta le storie di tre promettenti talenti delle giovanili romaniste nati nel 1977. Un anno dopo Totti, con il quale hanno condiviso alcuni anni in maglia giallorossa.

    Sono le storie di tre giovani campioni, promesse del calcio il cui destino di gloria sembrava segnato. Storie che, per motivi differenti, sono andate diversamente da come ci si aspettava e che insieme narrano una sorta di anti-storia del calcio: quello che poteva essere e non è stato, le vicende umane di chi al calcio ha regalato la propria giovinezza per poi scoprire che non era quella la sua strada. In questa intervista, il regista Paolo Geremei risponde ad alcune domande sul suo film, che sarà distribuito per la prima volta in DVD dal 10 settembre in edicola.

    • Daniele Rossi, attaccante, nel 1993 segnò il goal-scudetto con gli Allievi Nazionaligiallorossi. Davanti faceva coppia con Francesco Totti. Nella finale contro il Milan il numero 10 sulle spalle lo aveva lui. Oggi lavora in una pizzeria di Testaccio e allena una squadra giovanile.
    • Marco Caterini era il portiere della Nazionale Under 16. Nel 1992 aveva giocato a Wembley in un’amichevole contro l’Inghilterra. All’Europeo di categoria del 1993 era partito titolare, con Buffon in panchina. Oggi fa il geometra e, ogni tanto, pensa ancora alla sua carriera che non ha preso il volo.
    • Andrea Giulii Capponi era invece il portiere della Nazionale Under 17. È andato in trasferta con la Roma a Madrid e poi in ritiro con Carlo Mazzone. Dopo aver giocato nel calcio dilettantistico, oggi prepara i portieri della Lazio.

    Paolo, come mai hai scelto di raccontare l’altra faccia della medaglia del mondo del calcio?

    Non sono partito dall’idea di parlare di calcio. Sono partito da queste storie, che secondo me meritavano di essere raccontate, al di là della mia passione per il pallone. Non le ho raccontate da esperto di calcio, ma da curioso, facendo spesso domande semplici, che avrebbe fatto chiunque. Ho iniziato a girare non sapendo assolutamente dove saremmo andati a finire. Penso che alla base della buona riuscita del film c’è il rapporto di totale sincerità che si è instaurato con i tre ex calciatori.

    Al giorno d’oggi siamo bombardati di notizie sul calcio, è ormai difficile cogliere il lato umano dei calciatori, distinguere la loro immagine pubblica dalla loro personalità. Tu sei entrato in stretto contatto con tre ex potenziali campioni. Se le loro carriere fossero andati per il verso giusto, forse non si sarebbero mai aperti così. Ti ha fatto effetto?

    Probabilmente avrebbero sviluppato caratteri un po’ differenti, ma ho conosciuto tre persone talmente splendide che forse sarebbe cambiato solo l’atteggiamento, mentre la loro sostanza sarebbe stata la stessa.

    Il recente abbandono del giovane laziale Cardelli ci dà spunti su cui ragionare: ha accusato il sistema-calcio delle giovanili di essere “esterofilo” e di non favorire la crescita di talenti italiani. Ma soprattutto svela quanto i club possano essere spietati verso i proprio giovani. Qual è il sentimento dei tre atleti verso il club in cui hanno giocato, la Roma?

    Andrebbe chiesto a loro ed è un tema ovviamente delicato. Comunque, a posteriori, sono contenti di aver fatto ciò che hanno fatto, soprattutto Caterini e Rossi. Sono coscienti di aver avuto di aver vissuto emozioni forti e momenti che chiunque sognerebbe, di aver avuto allenatori fantastici e di aver giocato al fianco di grandi giocatori. Ciò gli permette anche di pensare alla carriera da allenatore. Se poi hanno del rancore verso qualche dirigente o procuratore è un qualcosa che va al di là di questo.

    La tua opera va contro la retorica comune secondo cui “se insegui i tuoi sogni ce la farai”. Il film ci dice: se qualcosa va storto e non dipende da te puoi anche non farcela. Forse aiuta ad affrontare in maniera positiva il venir meno di un sogno, è così?

    Aiuta sicuramente e credo che questo sia un aspetto molto importante. Sia per i ragazzi, sia soprattutto giocatori e allenatori. Penso che il film abbia una forte valenza pedagogica: insegna come approcciarsi al calcio e in generale ai propri sogni. Ma forse bisogna essere un po’ maturi per comprenderlo bene, ad esempio dei ragazzini di 14 anni dopo averlo visto hanno detto: “Tanto a me non succede, io ce la faccio”. È stato quasi un rifiuto.  È invece molto utile che lo vedano genitori e allenatori proprio per saper aiutare tutti quei ragazzi il cui sogno di divenire calciatore non si realizza.

    È vero che da un lato il film insegna che la carriera si potrebbe interrompere per motivi non dipendenti dal giovane calciatore, ma dall’altro sprona a dar tutto e a far sempre meglio. Ad esempio il padre di un giocatore spiega come il figlio fosse totalmente cosciente della sua bravura, tanto da poter scongiurare qualsiasi cessione a club minori. Ma le carriere calcistiche sono determinate da moltissimi fattori alieni a ciò che succede sul campo, è proprio per questo che in allenamento e in partita bisogna sempre cercare di superarsi. Bisogna conquistarsi anche ciò che si ritiene dovuto.

    Rossi allena, Capponi prepara i portieri, Caterini ha giocato in categorie minori. Così come una miriade di ex giocatori si re-inventa in ruoli più o meno importanti nel calcio. Perché è così difficile lasciare del tutto il mondo del pallone?

    Forse è difficile, ma loro vogliono allenare. Più che stare nel mondo del calcio, vogliono proprio il contatto col pallone, col campo, coi bambini. Ma ovviamente, in generale, è difficilissimo rinunciare al calcio: immagina un giovane calciatore che ha sacrificato tutta la propria vita allenandosi, senza aver proseguito gli studi. È normale che quando svanisce il sogno di divenire calciatore sia difficile rimboccarsi le maniche pensare al “piano B”. Ancor di più quando sei a un passo dall’affermazione in un grande club come la Roma. Secondo me questo rende i tre ragazzi del film ancora più eroici, perché si sono rialzati da questa delusione, dopo aver giocato a Wembley, in Nazionale o al fianco di Totti.

    Cosa hanno da insegnare queste tre persone ai giovani calciatori?

    Oltre alla grande competenza tecnica che hanno sviluppato nel corso della loro carriera, possono insegnare l’atteggiamento giusto verso il calcio. Forse più che gli attuali calciatori, a parlare di calcio nelle scuole ci dovrebbero andare persone come loro.

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  • Su “Olé” parlando di Roma e San Lorenzo

    Su Olé, il più importante giornale sportivo argentino, c’è oggi una mia breve (issima) intervista sulle affinità storiche tra la Roma e il San Lorenzo de Almagro, in vista dell’amichevole di oggi.

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  • Socrates alla Roma: sogno di una notte di mezza estate

    Socrates in giallorosso. Forse una semplice suggestione giornalistica, al limite del provocatorio. Forse qualcosa di più concreto, magari nella testa del campione brasiliano, sicuramente meno nei piani della dirigenza giallorossa, che poche settimane dopo avrebbe portato a Roma Paulo Roberto Falcão. Tutto ciò su cui possiamo basarci, almeno per il momento, sono due pagine del Guerin Sportivo del 2 luglio 1980.

    In quei giorni si cerca di dimenticare il deludente campionato europeo ospitato dall’Italia, anche grazie al calciomercato che torna al centro dell’attenzione. Quell’estate, peraltro, il tema è più caldo degli anni precedenti: le frontiere calcistiche sono state infatti riaperte e ogni club può ingaggiare uno straniero.

    Sono trascorsi quasi quindici anni dal Mondiale del 1966, quando dopo l’onta di di Italia-Corea si puntò il dito contro i troppi stranieri che – si diceva – soffocavano la crescita di talenti italiani. Nell’estate del 1980, oltre al già citato Falcão, arrivarono Prohaska all’Inter, Liam Brady alla Juventus, Juary all’Avellino e Krol al Napoli.

    Al Guerino si divertirono a raggiungere quello che sarà il capitano della nazionale verdeoro a Spagna’82 e a Messico ’86. È l’inviato Gerardo Landulfo che in Brasile incontra Socrates, “grande rivelazione del 1979”, dando spazio ai suoi pensieri su un eventuale trasferimento in Italia: “Là, fra l’altro, potrei frequentare un corso di perfezionamento in ortopedia tanto per migliorare le mie cognizioni ed esperienze mediche”, commenta il Dottore.

    Ma se il calciatore non si spinge oltre i “forse”, è invece il Guerin a scatenare un putiferio sulla stampa brasiliana: l’inviato porge a Socrates la maglia della Roma e il brasiliano si lascia fotografare con la celebre divisa a fasce firmata da Piero Gratton. “Socrates sta lasciando il Corinthians”, “Socrates già veste la maglia della Roma”, scrivono alcuni giornali locali, come riporta lo stesso Guerin.

    In fondo, anche se probabilmente non vi fu nulla di concreto, la notizia non dovette risultare così inverosimile: basti pensare che la Roma, poco dopo, comprò davvero un brasiliano dalla classe inimitabile, ma si chiamava Falcão. E non è un caso che Socrates, qualche anno dopo, in Italia ci andò davvero, ma alla Fiorentina. E stavolta non per studiare ortopedia, ma per “per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio”.

    Risultato immagini per socrates alla roma mezza estate

    Di solito, ricordando grandi colpi di mercato non realizzati, si pratica l’esercizio mentale delle cosiddette sliding doors. Verrebbe dunque da chiedersi come sarebbero stati i primi anni Ottanta con un Socrates in giallorosso e un Falcão lontano da Roma. Ma in questo caso è opportuno notare che il destino ha probabilmente preso la strada migliore, senza lasciar spazio a rimpianti.

    Difficilmente, infatti, qualcuno avrebbe potuto eguagliare lo slancio che l’ottavo re di Roma seppe dare al romanismo: quella mentalità vincente che tanto manca a una squadra troppo modesta al cospetto della storia della sua città.

    Allo stesso tempo, se quell’anno Socrates fosse venuto in Italia non si sarebbe forse scritta una delle pagine più belle della storia del calcio. Nei primi anni Ottanta il dottore fu infatti protagonista della tanto utopica quanto reale stagione della Democracia Corinthiana: il suo club, il Corinthians, dimostrò al Brasile oppresso dalla dittatura che ribellarsi era possibile e doveroso.

    Grazie anche all’impegno di personalità come Adílson Monteiro Alves, direttore tecnico della squadra, e a giocatori come WladimirCasagrande e Zenon, i calciatori e lo staff del club iniziarono a praticare l’autogestione totale: dai pasti, alle divise, ai ritiri, tutto veniva scelto dal collettivo riunito. Il Corinthians, oltre a vincere il Torneo Paulista per due volte, riuscì a imporsi come simbolo della lotta dei brasiliani per la democrazia.

    Il movimento della Democracia Corinthiana seppe utilizzare il calcio come mezzo di comunicazione di massa, ad esempio scendendo in campo con slogan politici sulle maglie, sfruttando l’enorme popolarità del futebol.

    “Il 15 vota”, si legge su una divisa del 1982: la cittadinanza era chiamata a sfruttare l’occasione delle elezioni municipali, concesse dal potere centrale, per mettere ancora più in difficoltà una dittatura già vacillante.

    Qualche anno dopo, nell’ambito della campagna a favore delle elezioni presidenziali dirette, Socrates affermò che sarebbe stato pronto a rinunciare al suo imminente trasferimento a Firenze se il relativo emendamento costituzionale fosse stato approvato. L’emendamento non passò e Socrates venne in Italia, dove non brillò e soprattutto non fu capito. Gli anni Settanta erano finiti da un pezzo.

    Si ringrazia la pagina “Storia della Roma” per aver segnalato per prima l’articolo in questione, uscito sul “Guerin Sportivo” del 2 luglio 1980.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 22 agosto 2016

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  • Il “po po po” da Bruges a Sanremo: genesi di un canto nazionalpopolare

    In principio furono i belgi. Anzi, gli stabiesi. No, i perugini. La disputa su chi abbia avuto per primo l’idea di adattare “Seven nation army” dei White Stripes a coro da stadio non si è mai chiusa e in fondo nulla vieta che diverse tifoserie lo abbiano fatto indipendentemente. Ma la colonna sonora del Mondiale 2006 ha una derivazione ben precisa: nasce a Milano da un gruppo di tifosi del Bruges e passando per Roma arriva in tutta Italia.

    La leggenda vuole che prima di un Milan-Club Brugge del 2003 alcuni belgi in trasferta ascoltarono l’ipnotizzante riff di Jack White in un bar milanese e lo fecero proprio. Dentro lo stadio il motivo fu riproposto e, complice l’inaspettata vittoria del Brugge, l’importazione in patria del nuovo coro fu facile. Quei tifosi non sapevano di aver inventato il nuovo inno del calcio mondiale. I milanisti a San Siro non immaginavano che tre anni dopo avrebbero cantato quella canzone per tutta l’estate.

    A riportare il coro in Italia fu Simone Perrotta. In realtà furono i tifosi che seguirono la Roma a Bruges ai sedicesimi di Coppa UEFA 2006, ma senza il goal vittoria dell’anglo-calabrese non avrebbero mai potuto sbeffeggiare i belgi copiandogli la canzone. Era il 15 febbraio del 2006 e la Roma spallettiana era giunta alla nona delle undici vittorie che segnarono quella stagione. Complice anche in questo caso la vittoria in trasferta, nonché il grandioso momento che stava attraversando la Roma, il coro-loop ebbe rapida fortuna nell’ambiente giallorosso, sconfinando presto dalla Curva Sud per divenire patrimonio comune del romanismo.

    Il canto dei romanisti a Bruges

    Ogni volta che sento il Po po po avverto una punta di irriverenza verso gli sconfitti: non so se sia insita nel motivetto o sia dovuta alla circostanza che ne vide la diffusione a Roma. Sta di fatto che sulle sponde del Tevere le note dei White Stripes trovarono presto un verso ottonario pronto a corredarle e completarle: bian-co-az-zur-ro-bas-tar-do. Con tutti gli sfottò, le lamentele, le note sul registro, le chat di MSN e gli scherzi in radio del caso.

    Veniamo alla ribalta nazionale. Questa fu raggiunta dal neonato coro il 28 febbraio del 2006 a Sanremo. Quale contesto migliore del Festival della Canzone Italiana? Insulso, sciovinista, ripetitivo, melenso, superficiale, demagogico, dozzinale. Eppure generalmente riconosciuto e seguito, proprio come quel ripetitivo coro. Fu dalle prime file del Teatro Ariston che Francesco Totti si esibì in una ridicola quanto celebre storpiatura del canto da stadio e sancì la sua metamorfosi definitiva in cantilena nazionalpopolare.

    Ora riguardalo facendo caso solo alla faccia di Ilary.

    A maggio Totti replicò la performance in radio da Fiorello, arricchendola però con la frase sui laziali. Seguirono fiumi di scuse, ma il dado era tratto: il Po po po era un affare nazionale. Da lì a Italia-Ghana il passo fu breve: dallo stadio di Hannover si alzò il coro che accompagnò gli Azzurri fino alla vittoria. “A seven nation army couldn’t hold me back” fu presa come un’esatta profezia: sette nazionali sono quelle che batte chi vince il mondiale.

    Cosa era scattato tra maggio e giugno è difficile dirlo: probabilmente alla diffusione del coro avevano contribuito anche i numerosi remix che circolarono per le discoteche di tutta Italia. Ancor più massiva fu la sua diffusione post-Mondiale: un esercito di adolescenti invase le mete turistiche italiane ed europee cantando il Po po po. E così, fra un falò in spiaggia e una serata house, per un anno parecchi italiani si sentirono invincibili.

    Oggi è difficile trovare una nazione occidentale o uno sport di squadra in cui non si sia cantato il Po po po. Lo hanno cantato i bavaresi dopo aver vinto la Champions contro il Borussia, lo hanno diffuso gli altoparlanti di tutti gli Europei dal 2008 a oggi, lo cantano gli inglesi (ma lì è Duh duh duh), lo cantano a Madrid, lo cantano in Australia. Lo cantano i tifosi dei Baltimore Ravens in NFL e quelli dei Miami Heat in NBA. Lo cantano di nuovo gli italiani a Brasile 2014, stimolando una celebre uscita alla Titti e il gatto Silvestro di Caressa.

    Viste le premesse, per fortuna quel Mondiale lo abbiamo perso.

    Insomma, sono passati dieci anni dalla sua consacrazione e il Po po po è passato da coro di curva a inno nazionale, per poi essere universalmente riconosciuto come canto di vittoria nello sport. Mentre scrivevo questo pezzo, Griezmann ha segnato i due goal che portano la Francia in finale di Euro 2016: dal Velodrome si è alzato per due volte il Po po po…

    Certo che però bisogna volersi proprio male.

    Pubblicato su Crampi Sportivi il 9 luglio 2016

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  • L’amichevole nel nome di Papa Francesco: a settembre Roma-San Lorenzo de Almagro

    Il 3 settembre si giocherà all’Olimpico l’amichevole Roma – San Lorenzo de Almagro. L’occasione è data dalla sosta della Serie A e permetterà agli azulgrana di Buenos Aires di giocare per la prima volta nella città dove risiede il loro tifoso più famoso, Papa Francesco. Il secondo vicepresidente del San Lorenzo, Roberto Álvarez, ha annunciato l’iniziativa lo scorso 12 giugno ai microfoni della trasmissione radio Soy San Lorenzo, condotta dal giornalista Mario Andrés Benigni. Contattato da Gioco Pulito, Álvarez ha descritto così quella che si preannuncia come più di una semplice amichevole:

    Confermo che il 3 settembre si giocherà nella capitale italiana l’amichevole Roma-San Lorenzo. Con l’occasione, convocheremo a Roma la riunione delle “peñas” europee del San Lorenzo. Il nostro club sta infatti attraversando una fase di aumento del numero dei soci: in molte città europee ci sono gruppi organizzati di tifosi e questa mi sembra una buona opportunità per riunirli tutti e continuare ad accrescere il numero di soci. Inoltre alcuni sostenitori verranno dall’Argentina e anche noi della dirigenza, incluso il presidente Matías Lammens, accompagneremo la squadra. Arriveremo il 2 settembre e ci alleneremo il giorno stesso, il giorno seguente giocheremo e sarà una partita di grande richiamo.

    È una bella coincidenza che il San Lorenzo giochi per la prima volta a Roma proprio nell’anno del Giubileo. Tuttavia, se mi chiedi riguardo la presenza di Papa Francesco alla partita, devo procedere con calma estrema. Non voglio creare aspettativa: noi non siamo i padroni di casa e molto dipende anche dalla Roma, oltre che dalle autorità. Ci deve essere una volontà congiunta. Ripeto, non voglio generare aspettativa.

    Se il San Lorenzo giocherà a Roma, lo si deve anche ai ragazzi della Peña RomAzulgrana. Il fondatore Roberto Rizzo, residente a Buenos Aires, racconta così la storia e le attività di questo giovane gruppo di cuervos italiani:

    Dal primo incontro che ho avuto coi dirigenti del San Lorenzo, quando vennero a Roma a incontrare il Papa, ho sempre percepito che questa amichevole fosse il loro sogno nel cassetto. Inizialmente si parlava di un triangolare con Roma e Lazio, ma adesso a quanto pare saranno coinvolte solo Roma e San Lorenzo.
    La Peña RomAzulgrana è nata dopo il primo viaggio che ho fatto con un amico a Buenos Aires. Entrammo in contatto con la tifoseria del San Lorenzo e con la dirigenza, con la quale abbiamo iniziato a pensare all’idea di creare un gruppo a Roma, vista la grande presenza di sostenitori del San Lorenzo. Io vivo a Buenos Aires e ogni domenica vado allo stadio con altri italiani: cerchiamo di coinvolgerli nell’ambiente. Sono venuti ragazzi della Roma, della Lazio, della Juventus, di Cesena, dalla Sardegna.

    L’idea dell’amichevole nasce dal fatto che in Italia c’è grande attenzione verso il San Lorenzo, non solo perché è la squadra del Papa: la sua tifoseria ha ispirato canti di numerose curve, anche della Curva Sud romanista.

    Non è dunque la prima volta che si parla di una partita del San Lorenzo a Roma. Nella primavera del 2013 circolò la notizia di un triangolare di beneficenza anche con la Lazio, con lo scopo di raccogliere fondi per i quartieri più poveri di Buenos Aires. Tuttavia, questa è la prima volta che i dirigenti del San Lorenzo non usano il condizionale. Dalla dirigenza della Roma, però, non è trapelata ancora nessuna notizia.

    Anche se Álvarez non si sbilancia, il sogno di tanti tifosi argentini è quello di rivedere Jorge Mario Bergoglio allo stadio: da giovane, infatti, il futuro Papa non si perdeva una partita al Viejo Gasómetro, lo storico stadio nel quartiere di Boedo che ora il club vuole ricostruire. Da quando Bergoglio risiede al Vaticano, il San Lorenzo si è ripreso da una grave crisi sportiva ed economica che lo ha visto ad un passo dalla retrocessione, vincendo prima il campionato argentino e poi la prima Copa Libertadores della sua storia. Difficile convincere i tifosi-fedeli che Francisco non c’entra nulla con tutto ciò. I maligni, però, sostengono che il Santo Padre si sia prodigato in miracoli solo per il San Lorenzo, dimenticandosi della selección: un sentimento che probabilmente è aumentato dopo la seconda finale di Copa América persa contro il Cile.

    Tuttavia, il senso di appartenenza che lega Bergoglio al San Lorenzo non può essere ridotto solo ad aspetti sportivi. Il club nacque infatti nel 1908 grazie all’idea di un prete salesiano, padre Lorenzo Massa: avrebbe concesso il campo dell’oratorio a un gruppo di ragazzini dediti al calcio di strada, allontanandoli così dal pericoloso passaggio dei tram, in cambio della loro presenza a messa. Nei nomi di quei giovani calciatori, probabilmente ancora ignari della portata storica dei loro gesti, si legge un legame con l’Italia che nasce ben prima del pontificato di Bergoglio: Monti, Scaramusso, Manara, Gianella, Assali, Colazzurdo. Nomi che raccontano le storie di traversate oceaniche dei milioni di italiani emigrati in Argentina.

    Inoltre, sin dal giorno della sua fondazione, il San Lorenzo non è stato una semplice squadra di calcio, ma un vero e proprio fulcro sociale e culturale per il quartiere. Il Viejo Gasómetro, costruito nel 1916, disponeva di cinema, biblioteca, teatro, università popolare e strutture per numerose discipline sportive. Uno stadio “aperto 365 giorni l’anno”, come tanto si ricerca oggi, che coinvolgeva quotidianamente il territorio. Non c’è dunque da stupirsi se Papa Francesco, che ha fatto dell’impegno sociale un tratto distintivo del suo pontificato, vada così fiero della sua passione calcistica.

    Se la fondazione del Ciclón è legata a doppio filo all’Italia, anche la Roma può annoverare nei suoi annali qualche storia legata al club di Boedo. Dal San Lorenzo proveniva, infatti, Miguel Angel Pantò, campione d’Italia nel 1942 con la maglia giallorossa. Nato a Buenos Aires, giocò tre anni al San Lorenzo, poi alla Roma per sei stagioni tra il 1939 e il 1947. Fu autore di 12 goal nella cavalcata che portò per la prima volta una squadra del centro-sud allo Scudetto.
    Relativamente più recente, invece, la storia di Francisco Ramón Lojacono, arrivato alla Roma nel 1960 dalla Fiorentina. I viola lo acquistarono dal San Lorenzo nel 1956 con la partecipazione del Lanerossi Vicenza, prima di cederlo alla Roma nel 1960.  Nella capitale giocò 56 partite, segnò 22 reti e vinse la Coppa delle Fiere nel 1961. Dotato di un tiro potentissimo, l’argentino faceva parlare di sé anche per la vita extra-calcistica: la capitale della dolce vita lo catturò nel suo vortice, e non era raro vederlo a via Veneto in compagnia di personaggi dello spettacolo o in qualche casinò a spendere il proprio stipendio. Rimase nella storia un suo goal contro la Juventus: dopo essersi lussato una spalla, rientrò in campo con un braccio legato sotto la maglietta, ma questo non gli impedì di segnare l’1-0 con un missile da fuori area.

    Francisco Ramón Lojacono con indosso la tuta da allenamento della Roma

    Dai fondatori italo-argentini alla passione calcistica di un Papa anch’egli italo-argentino, passando per le storie di due calciatori romanisti, la Peña RomAzulgrana e i cori della Curva Sud ispirati a quelli argentini: tanto basta per dire che quella tra Associazione Sportiva Roma e Club Atlético San Lorenzo de Almagro per alcuni sarà più di una semplice amichevole.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 30 giugno 2016

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