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Tag: 2016

  • Il “po po po” da Bruges a Sanremo: genesi di un canto nazionalpopolare

    In principio furono i belgi. Anzi, gli stabiesi. No, i perugini. La disputa su chi abbia avuto per primo l’idea di adattare “Seven nation army” dei White Stripes a coro da stadio non si è mai chiusa e in fondo nulla vieta che diverse tifoserie lo abbiano fatto indipendentemente. Ma la colonna sonora del Mondiale 2006 ha una derivazione ben precisa: nasce a Milano da un gruppo di tifosi del Bruges e passando per Roma arriva in tutta Italia.

    La leggenda vuole che prima di un Milan-Club Brugge del 2003 alcuni belgi in trasferta ascoltarono l’ipnotizzante riff di Jack White in un bar milanese e lo fecero proprio. Dentro lo stadio il motivo fu riproposto e, complice l’inaspettata vittoria del Brugge, l’importazione in patria del nuovo coro fu facile. Quei tifosi non sapevano di aver inventato il nuovo inno del calcio mondiale. I milanisti a San Siro non immaginavano che tre anni dopo avrebbero cantato quella canzone per tutta l’estate.

    A riportare il coro in Italia fu Simone Perrotta. In realtà furono i tifosi che seguirono la Roma a Bruges ai sedicesimi di Coppa UEFA 2006, ma senza il goal vittoria dell’anglo-calabrese non avrebbero mai potuto sbeffeggiare i belgi copiandogli la canzone. Era il 15 febbraio del 2006 e la Roma spallettiana era giunta alla nona delle undici vittorie che segnarono quella stagione. Complice anche in questo caso la vittoria in trasferta, nonché il grandioso momento che stava attraversando la Roma, il coro-loop ebbe rapida fortuna nell’ambiente giallorosso, sconfinando presto dalla Curva Sud per divenire patrimonio comune del romanismo.

    Il canto dei romanisti a Bruges

    Ogni volta che sento il Po po po avverto una punta di irriverenza verso gli sconfitti: non so se sia insita nel motivetto o sia dovuta alla circostanza che ne vide la diffusione a Roma. Sta di fatto che sulle sponde del Tevere le note dei White Stripes trovarono presto un verso ottonario pronto a corredarle e completarle: bian-co-az-zur-ro-bas-tar-do. Con tutti gli sfottò, le lamentele, le note sul registro, le chat di MSN e gli scherzi in radio del caso.

    Veniamo alla ribalta nazionale. Questa fu raggiunta dal neonato coro il 28 febbraio del 2006 a Sanremo. Quale contesto migliore del Festival della Canzone Italiana? Insulso, sciovinista, ripetitivo, melenso, superficiale, demagogico, dozzinale. Eppure generalmente riconosciuto e seguito, proprio come quel ripetitivo coro. Fu dalle prime file del Teatro Ariston che Francesco Totti si esibì in una ridicola quanto celebre storpiatura del canto da stadio e sancì la sua metamorfosi definitiva in cantilena nazionalpopolare.

    Ora riguardalo facendo caso solo alla faccia di Ilary.

    A maggio Totti replicò la performance in radio da Fiorello, arricchendola però con la frase sui laziali. Seguirono fiumi di scuse, ma il dado era tratto: il Po po po era un affare nazionale. Da lì a Italia-Ghana il passo fu breve: dallo stadio di Hannover si alzò il coro che accompagnò gli Azzurri fino alla vittoria. “A seven nation army couldn’t hold me back” fu presa come un’esatta profezia: sette nazionali sono quelle che batte chi vince il mondiale.

    Cosa era scattato tra maggio e giugno è difficile dirlo: probabilmente alla diffusione del coro avevano contribuito anche i numerosi remix che circolarono per le discoteche di tutta Italia. Ancor più massiva fu la sua diffusione post-Mondiale: un esercito di adolescenti invase le mete turistiche italiane ed europee cantando il Po po po. E così, fra un falò in spiaggia e una serata house, per un anno parecchi italiani si sentirono invincibili.

    Oggi è difficile trovare una nazione occidentale o uno sport di squadra in cui non si sia cantato il Po po po. Lo hanno cantato i bavaresi dopo aver vinto la Champions contro il Borussia, lo hanno diffuso gli altoparlanti di tutti gli Europei dal 2008 a oggi, lo cantano gli inglesi (ma lì è Duh duh duh), lo cantano a Madrid, lo cantano in Australia. Lo cantano i tifosi dei Baltimore Ravens in NFL e quelli dei Miami Heat in NBA. Lo cantano di nuovo gli italiani a Brasile 2014, stimolando una celebre uscita alla Titti e il gatto Silvestro di Caressa.

    Viste le premesse, per fortuna quel Mondiale lo abbiamo perso.

    Insomma, sono passati dieci anni dalla sua consacrazione e il Po po po è passato da coro di curva a inno nazionale, per poi essere universalmente riconosciuto come canto di vittoria nello sport. Mentre scrivevo questo pezzo, Griezmann ha segnato i due goal che portano la Francia in finale di Euro 2016: dal Velodrome si è alzato per due volte il Po po po…

    Certo che però bisogna volersi proprio male.

    Pubblicato su Crampi Sportivi il 9 luglio 2016

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  • L’amichevole nel nome di Papa Francesco: a settembre Roma-San Lorenzo de Almagro

    Il 3 settembre si giocherà all’Olimpico l’amichevole Roma – San Lorenzo de Almagro. L’occasione è data dalla sosta della Serie A e permetterà agli azulgrana di Buenos Aires di giocare per la prima volta nella città dove risiede il loro tifoso più famoso, Papa Francesco. Il secondo vicepresidente del San Lorenzo, Roberto Álvarez, ha annunciato l’iniziativa lo scorso 12 giugno ai microfoni della trasmissione radio Soy San Lorenzo, condotta dal giornalista Mario Andrés Benigni. Contattato da Gioco Pulito, Álvarez ha descritto così quella che si preannuncia come più di una semplice amichevole:

    Confermo che il 3 settembre si giocherà nella capitale italiana l’amichevole Roma-San Lorenzo. Con l’occasione, convocheremo a Roma la riunione delle “peñas” europee del San Lorenzo. Il nostro club sta infatti attraversando una fase di aumento del numero dei soci: in molte città europee ci sono gruppi organizzati di tifosi e questa mi sembra una buona opportunità per riunirli tutti e continuare ad accrescere il numero di soci. Inoltre alcuni sostenitori verranno dall’Argentina e anche noi della dirigenza, incluso il presidente Matías Lammens, accompagneremo la squadra. Arriveremo il 2 settembre e ci alleneremo il giorno stesso, il giorno seguente giocheremo e sarà una partita di grande richiamo.

    È una bella coincidenza che il San Lorenzo giochi per la prima volta a Roma proprio nell’anno del Giubileo. Tuttavia, se mi chiedi riguardo la presenza di Papa Francesco alla partita, devo procedere con calma estrema. Non voglio creare aspettativa: noi non siamo i padroni di casa e molto dipende anche dalla Roma, oltre che dalle autorità. Ci deve essere una volontà congiunta. Ripeto, non voglio generare aspettativa.

    Se il San Lorenzo giocherà a Roma, lo si deve anche ai ragazzi della Peña RomAzulgrana. Il fondatore Roberto Rizzo, residente a Buenos Aires, racconta così la storia e le attività di questo giovane gruppo di cuervos italiani:

    Dal primo incontro che ho avuto coi dirigenti del San Lorenzo, quando vennero a Roma a incontrare il Papa, ho sempre percepito che questa amichevole fosse il loro sogno nel cassetto. Inizialmente si parlava di un triangolare con Roma e Lazio, ma adesso a quanto pare saranno coinvolte solo Roma e San Lorenzo.
    La Peña RomAzulgrana è nata dopo il primo viaggio che ho fatto con un amico a Buenos Aires. Entrammo in contatto con la tifoseria del San Lorenzo e con la dirigenza, con la quale abbiamo iniziato a pensare all’idea di creare un gruppo a Roma, vista la grande presenza di sostenitori del San Lorenzo. Io vivo a Buenos Aires e ogni domenica vado allo stadio con altri italiani: cerchiamo di coinvolgerli nell’ambiente. Sono venuti ragazzi della Roma, della Lazio, della Juventus, di Cesena, dalla Sardegna.

    L’idea dell’amichevole nasce dal fatto che in Italia c’è grande attenzione verso il San Lorenzo, non solo perché è la squadra del Papa: la sua tifoseria ha ispirato canti di numerose curve, anche della Curva Sud romanista.

    Non è dunque la prima volta che si parla di una partita del San Lorenzo a Roma. Nella primavera del 2013 circolò la notizia di un triangolare di beneficenza anche con la Lazio, con lo scopo di raccogliere fondi per i quartieri più poveri di Buenos Aires. Tuttavia, questa è la prima volta che i dirigenti del San Lorenzo non usano il condizionale. Dalla dirigenza della Roma, però, non è trapelata ancora nessuna notizia.

    Anche se Álvarez non si sbilancia, il sogno di tanti tifosi argentini è quello di rivedere Jorge Mario Bergoglio allo stadio: da giovane, infatti, il futuro Papa non si perdeva una partita al Viejo Gasómetro, lo storico stadio nel quartiere di Boedo che ora il club vuole ricostruire. Da quando Bergoglio risiede al Vaticano, il San Lorenzo si è ripreso da una grave crisi sportiva ed economica che lo ha visto ad un passo dalla retrocessione, vincendo prima il campionato argentino e poi la prima Copa Libertadores della sua storia. Difficile convincere i tifosi-fedeli che Francisco non c’entra nulla con tutto ciò. I maligni, però, sostengono che il Santo Padre si sia prodigato in miracoli solo per il San Lorenzo, dimenticandosi della selección: un sentimento che probabilmente è aumentato dopo la seconda finale di Copa América persa contro il Cile.

    Tuttavia, il senso di appartenenza che lega Bergoglio al San Lorenzo non può essere ridotto solo ad aspetti sportivi. Il club nacque infatti nel 1908 grazie all’idea di un prete salesiano, padre Lorenzo Massa: avrebbe concesso il campo dell’oratorio a un gruppo di ragazzini dediti al calcio di strada, allontanandoli così dal pericoloso passaggio dei tram, in cambio della loro presenza a messa. Nei nomi di quei giovani calciatori, probabilmente ancora ignari della portata storica dei loro gesti, si legge un legame con l’Italia che nasce ben prima del pontificato di Bergoglio: Monti, Scaramusso, Manara, Gianella, Assali, Colazzurdo. Nomi che raccontano le storie di traversate oceaniche dei milioni di italiani emigrati in Argentina.

    Inoltre, sin dal giorno della sua fondazione, il San Lorenzo non è stato una semplice squadra di calcio, ma un vero e proprio fulcro sociale e culturale per il quartiere. Il Viejo Gasómetro, costruito nel 1916, disponeva di cinema, biblioteca, teatro, università popolare e strutture per numerose discipline sportive. Uno stadio “aperto 365 giorni l’anno”, come tanto si ricerca oggi, che coinvolgeva quotidianamente il territorio. Non c’è dunque da stupirsi se Papa Francesco, che ha fatto dell’impegno sociale un tratto distintivo del suo pontificato, vada così fiero della sua passione calcistica.

    Se la fondazione del Ciclón è legata a doppio filo all’Italia, anche la Roma può annoverare nei suoi annali qualche storia legata al club di Boedo. Dal San Lorenzo proveniva, infatti, Miguel Angel Pantò, campione d’Italia nel 1942 con la maglia giallorossa. Nato a Buenos Aires, giocò tre anni al San Lorenzo, poi alla Roma per sei stagioni tra il 1939 e il 1947. Fu autore di 12 goal nella cavalcata che portò per la prima volta una squadra del centro-sud allo Scudetto.
    Relativamente più recente, invece, la storia di Francisco Ramón Lojacono, arrivato alla Roma nel 1960 dalla Fiorentina. I viola lo acquistarono dal San Lorenzo nel 1956 con la partecipazione del Lanerossi Vicenza, prima di cederlo alla Roma nel 1960.  Nella capitale giocò 56 partite, segnò 22 reti e vinse la Coppa delle Fiere nel 1961. Dotato di un tiro potentissimo, l’argentino faceva parlare di sé anche per la vita extra-calcistica: la capitale della dolce vita lo catturò nel suo vortice, e non era raro vederlo a via Veneto in compagnia di personaggi dello spettacolo o in qualche casinò a spendere il proprio stipendio. Rimase nella storia un suo goal contro la Juventus: dopo essersi lussato una spalla, rientrò in campo con un braccio legato sotto la maglietta, ma questo non gli impedì di segnare l’1-0 con un missile da fuori area.

    Francisco Ramón Lojacono con indosso la tuta da allenamento della Roma

    Dai fondatori italo-argentini alla passione calcistica di un Papa anch’egli italo-argentino, passando per le storie di due calciatori romanisti, la Peña RomAzulgrana e i cori della Curva Sud ispirati a quelli argentini: tanto basta per dire che quella tra Associazione Sportiva Roma e Club Atlético San Lorenzo de Almagro per alcuni sarà più di una semplice amichevole.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 30 giugno 2016

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  • Campo Testaccio: il primo inno della Roma era un tango

    A più di ottant’anni dalla sua composizione, la “Canzone di Testaccio” è ancora intonata dai tifosi della Roma. È un modo per coltivare la memoria dei tempi giocati all’ombra del Monte dei Cocci, ma è anche un’esortazione rivolta agli undici in campo: tirate fuori lo spirito testaccino di un tempo. Nonostante la sua diffusione, pochi sanno che la canzone fu composta sulle note di “Guitarrita”, un tango scritto da Bixio Cherubini e Armando Fragna nel 1930.

    Il compositore Fragna e il paroliere Cherubini scrissero “Guitarrita”per la colonna sonora del film romantico-popolare “La canzone dell’amore”, diretto da Gennaro Righelli e presentato a Roma il 6 ottobre 1930. Il film, tratto dalla novella “In silenzio di Pirandello, è la prima opera cinematografica col sonoro di produzione italiana.

    L’anno successivo, il paroliere e poeta Totò Castellucci compose sulle note di “Guitarrita” quella che al tempo veniva chiamata la “Canzona de Testaccio”, oggi nota anche col semplice titolo di “Campo Testaccio”. Grazie al suo contributo, l’incipit del tango (“Sotto le stelle nell’Argentina / bruna regina regnavi tu”) divenne il celebre “Cor core acceso da ‘na passione / undici atleti Roma chiamò”.  L’attività di Castellucci come autore di testi dedicati all’AS Roma non si limitò a questa occasione, tant’è che negli anni ’50 uscì addirittura un suo “Canzoniere giallorosso”.

    A Roma la tradizione di ideare canti calcistici sulle note di canzoni già famose ha dunque radici che vanno ben oltre i cori ideati su “La partita di pallone” di Rita Pavone o “La notte vola”di Lorella Cuccarini. Tuttavia, non dobbiamo immaginare la “Canzone di Testaccio” come un brano frutto di quella “creatività collettiva” che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana. Castellucci infatti compose il brano per il primo film italiano dedicato al calcio: “Cinque a zero” di Mario Bonnard, uscito nel 1932, del quale oggi sarebbe rimasta una sola pellicola in lingua francese.

    Il film trae ispirazione dallo storico celebre 5-0 assestato dalla Roma alla Juventus il 15 marzo 1931 e vede la partecipazione di buona parte della rosa romanista, tra cui Ferraris IV, Bernardini, Volk e Masetti, nonché di Zi’ Checco, storico custode di Campo Testaccio. Nella commedia di Bonnard le vicende calcistiche fanno da sfondo a due storie di coppia: l’amore tra il centravanti della squadra e una ballerina del varietà e il rapporto tra il presidente, interpretato dal celebre Angelo Musco, e la moglie allergica al calcio, che alla fine del film diviene una grande tifosa.

    Una scena di “Cinque a zero” con i giocatori della Roma

    Il primo inno della Roma era dunque un tango argentino, ma al tempo non doveva risuonare come una melodia esotica. La diffusione del tango in Italia era tale che anche una canzone a Roma considerata tradizionale come “Chitarra Romana”, scritta nel 1935 da Eldo Di Lazzaro, era originariamente un tango. E non è un caso se Ettore Petrolini, grande attore e drammaturgo vissuto a cavallo dei due secoli, compose proprio in quegli anni il suo “Tango romano”. Più di tutti, però, colpisce l’aneddoto di un giovane Renato Rascel che, per guadagnarsi da vivere, si spacciava per cantante argentino nei cabaret torinesi. Si racconta che un giorno, avvistati alcuni calciatori argentini nel pubblico, li pregò di non “farlo sgamare”.

    Sarebbe bello oggi poter sapere cosa pensavano del tango giallorosso i tantissimi argentini e italo-argentini che fecero grande la Roma nei suoi primi decenni di vita. Due di questi sono anche citati nella canzone: Arturo Chini Ludueña e Nicolás Lombardo.

    Chini, esterno tutto dribbling e velocità, arrivò nel 1926 in Italia con una laurea in giurisprudenza. L’Alba-Audace lo soffiò alla Juventus e, quando i biancoverdi si fusero con Roman e Fortitudo-Pro Roma, divenne il primo giocatore straniero della neonata AS Roma. Nel 1934 transitò alla Lazio per poi giocare le ultime tre stagioni della sua carriera nel Trastevere. Dopo il ritiro, si dedicò alle relazioni internazionali, arrivando a lavorare come alto diplomatico a Washington DC.

    Lombardo fu invece acquistato dalla Roma nel 1930, anche se la sua storia in giallorosso durò poco: nel 1932 un grave infortunio al ginocchio lo costrinse a fermarsi per lungo tempo. Ma il suo ruolo nella società giallorossa era tutt’altro che esaurito: la società lo inviò in Argentina come mediatore per il calciomercato. Lì, mentre assisteva a una partita del Racing de Avellaneda, fu aggredito da un gruppo di tifosi perché colpevole di facilitare un club straniero nel “depredare” il campionato argentino.

    Tuttavia, dopo aver attraversato l’oceano a bordo del piroscafo “Duilio”, il 18 maggio 1932 Lombardo approdò sul litorale romano in compagnia dei talenti oriundi Guaita, Scopelli e Stagnaro. I tre, comprati dalla Roma per fare il salto di qualità, arrivarono insieme nella capitale e insieme ne fuggirono nel 1935 per paura di finire a combattere in Abissinia. Furono visti entrare in una Lancia Dilamda, poi in Liguria su un treno per la Francia, dove si imbarcarono per tornare per sempre in Sud America. Non manca chi sostiene che a insinuare in loro la paura del tutto infondata di finire al fronte fu il Generale Vaccaro, gerarca fascista e presidente della FIGC, noché alta carica dirigenziale della Lazio.

    La storia del primo decennio romanista ebbe dunque solo due passaporti, quello italiano e quello argentino, e queste sono solo alcune delle storie giunte fino ai giorni nostri. Negli anni successivi furono ancora numerosi gli argentini ad attraversare l’Oceano con il sogno di giocare nella Roma: Spitale, Provvidente, i futuri campioni d’Italia Allemandi e Pantò, fino ad arrivare al secondo dopoguerra con Di Paola, Peretti, Pesaola e Valle.

    Ai celebri “Piedone” Manfredini e Francisco Lojacono seguì un decennio, quello dei Settanta, di chiusura delle “frontiere” calcistiche.  Negli anni Ottanta la Roma si risvegliò “brasileira”, come cantava Little Tony, e dovrà aspettare il 1993 per rivedere un argentino in squadra: è Abel Eduardo Balbo e con lui ricominciò l’unico rapporto che sia mai potuto esistere tra giallorossi e biancoazzurri, quello che su una nave collega Buenos Aires e Roma. L’apice raggiunto da questa relazione si incarna, a inizio del millennio, in una persona che è inutile nominare, perché è già venuta in mente a tutti da parecchie righe.

    Si ringrazia Massimo Izzi per i preziosi consigli e per aver scritto il primo articolo in cui si cita “Guitarrita”, uscito su “Il Romanista” del 10 settembre 2008.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 17 giugno 2016

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  • Intervista a Simone Perrotta: “Serve il professionismo per il calcio femminile”

    Nell’ambito del Festival del Calcio Solidale avevamo intervistato Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori. Oggi incontriamo Simone Perrotta, rieletto consigliere federale AIC, con il quale abbiamo modo di discutere su alcuni degli argomenti che hanno animato il festival.

    Simone, anche tu, come Tommasi, credi che il calcio della solidarietà e dell’integrazione, così come quello della partecipazione attiva e dell’azionariato diffuso, non abbiano bisogno dell’esposizione mediatica della Serie A?

    Se questo tipo di sport ai media interessa poco, a noi come Assocalciatori interessa molto, perché sappiamo che alla base del calcio ci devono essere dei valori. È vero che dalla punta della piramide, ovvero dal calcio mainstream, vengono trasmessi anche messaggi negativi, ma è un altro discorso. Noi dobbiamo lavorare sulla base, sui bambini, trasmettendo valori come quelli della competizione sana, dell’integrazione. Come AIC siamo molto vicini a questi temi.    

    All’estero ci sono club con molto seguito che sono gestiti direttamente dai tifosi: penso a squadre come il Portsmouth, lo United of Manchester, il Wimbledon e quasi tutte le squadre della Bundesliga. Ci sono inoltre società possedute da piccoli azionisti che hanno scelto modelli economicamente sostenibili, come l’Eibar nella massima serie Spagnola. In Italia queste esperienze stanno trovando terreno abbastanza fertile nel dilettantismo, ma stentano ad affermarsi nel cosiddetto calcio che conta. Perché secondo te?

    Fa comodo che il potere sia concentrato in un’unica persona. Questo discorso va di pari passo a quello sul perché in Italia non si riescono a fare progetti sportivi a lungo termine. I presidenti vogliono i soldi oggi, anzi li “vogliono ieri”, e pensano solo al presente. Onestamente i modelli di gestione di cui parli tu li vedo difficili da realizzare qui in Italia, almeno al momento, perché qui l’imperativo è quello di vincere subito e quindi i progetti che partono dal basso non hanno né tempo né risorse per lavorare in un certo modo. Deve prima cambiare la cultura sportiva e il modo di intendere il calcio.

    Quali provvedimenti vanno presi per debellare il calcio-scommesse?

    È un tema molto delicato, perché soprattutto nelle serie inferiori ci sono realtà in cui i compensi sono minimi o nulli. In queste crepe di malagestione si infiltrano società che non stenterei a definire mafiose, che vanno a corrompere i ragazzi per fargli fare quello che leggiamo spesso sui giornali. Si torna al discorso di prima: ci vuole un’etica sportiva che contribuisca a diminuire queste pratiche ed è per questo che lavoriamo alla base della piramide.

    È assurdo che le calciatrici in Italia non possano accedere al professionismo e debbano per forza fare un secondo lavoro: come si risolve questa situazione? 

    Rendendole professioniste
    . Facendo una lega femminile che non sia sotto il controllo della Lega Nazionale Dilettanti. In paesi a noi vicini il calcio femminile è molto avanti, mentre noi siamo un po’ indietro, anche se lentamente pure il nostro movimento sta crescendo. Ma anche le altre istituzioni devono avere questo desiderio di far crescere il calcio femminile.

    Due cose che importeresti dai campionati esteri e due cose che esporteresti.

    Non credo che si possa importare quello che vorrei vedere, cioè gli stadi pieni della Germania e dell’Inghilterra, oltre al tifo che è sempre a favore e quasi mai contro. Da esportare noi abbiamo la passione dei tifosi, soprattutto nei paesi in cui la cultura calcistica è meno forte. Sulla seconda cosa da esportare, se escludiamo i calciatori, onestamente non saprei….

    Tommasi ha risposto la cultura del bello, in campo come nelle arti.

    Ah, ma così non vale! Ha messo i calciatori, ha fatto il paraculo! Allora, mi associo a lui.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 31 maggio 2016

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  • Intervista a Damiano Tommasi: “Ecco i miei primi passi per il nuovo mandato in AssoCalciatori”

    Nella cornice del Calcio Solidale inFest abbiamo incontrato Damiano Tommasi, ospite dell’incontro “L’altro calcio – Storie di sogni, di vita e di fatica” in veste di presidente dell’Associazione Italiana Calciatori.

    Partiamo dal Festival del Calcio Solidale, a cui hai preso parte. Questa iniziativa coinvolge realtà mosse da valori di solidarietà, senso della comunità, partecipazione attiva. Pare, a mio avviso, che ai media mainstream questo lato del calcio interessi poco. È così?

    Questo tipo di calcio non ha bisogno della visibilità e della spregiudicatezza mediatica del calcio della Champions League o della nazionale. È un modo di vivere lo sport tanto diffuso quanto contagioso, perciò penso che si debba sviluppare a livello locale, per non dire porta a porta, agendo anche e soprattutto sui genitori dei bambini che praticano il calcio.

    Sei stato da poco rieletto presidente dell’Associazione Italiana Calciatori: quali sono i principali obiettivi per questi ulteriori quattro anni di mandato?

    In primis quello di rendere consapevole la categoria di avere un ruolo all’interno delle istituzioni federali. Poi quello di raggiungere una maggiore stabilità contrattuale nelle categorie inferiori. Infine, va affrontato il problema della violenza sui calciatori, che ha luogo in tutte le categorie del calcio italiano. Il 70% delle aggressioni provengono dai propri tifosi: è un modo malato di vivere il tifo. In Italia si è presa l’abitudine di considerarlo un effetto collaterale del calcio, ma, nei paesi calcisticamente evoluti, questi episodi vengono considerati delle eccezioni.

    Facciamo un gioco: due cose che importeresti dai campionati esteri e due cose che importeresti.

    Importerei la capacità di vivere il calcio con semplicità e con gioia, cosa che ho vissuto soprattutto in Spagna durante la mia esperienza al Levante. Poi importerei la convinzione che il futuro è migliore del presente, che ho percepito in Cina. Esporterei la cultura del bello e la passione per le arti – anche calcistiche – che abbiamo e che in altri paesi non è così evidente. Il nostro essere artisti anche in campo credo che sia una cosa da esportare e con cui contagiare paesi un po’ più freddi.

    Sette anni fa sei stato il primo calciatore italiano a giocare nel campionato professionistico cinese. Da allora in Cina è già cambiato tutto: come vedi il calcio cinese fra altri sette anni?

    Sicuramente in crescita ancora più esponenziale. Ma la storia non si insegna a comando, quindi anche la tradizione calcistica cinese deve crescere in tutte le sue sfaccettature, a cominciare banalmente anche dai giornalisti: se c’è competenza calcistica cresce tutto il movimento, se manca è tutto rallentato. Questo sarà il futuro del calcio cinese: grandi investimenti per crescere soprattutto dietro le quinte. Infatti per quanto riguarda le strutture e altri aspetti più appariscenti, in Cina già sono alla pari dei paesi calcisticamente evoluti, perché per realizzarle non serve né la tradizione né la vena artistica che abbiamo nel nostro calcio.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 28 maggio 2016

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  • In piedi allo stadio dopo Hillsborough: il Celtic apre la strada

    Dopo più di vent’anni di divieti, il Celtic sarà il primo club nel Regno Unito a permettere ai propri tifosi di stare in piedi allo stadio. Il club di Glasgow ha annunciato che per la stagione 2016-17 realizzerà una safe-standing area nella Lisbon Lions Stand. Il settore dovrebbe contenere circa 2600 posti e sarà adibito nella zona dello stadio abitualmente occupata dai tifosi della Green Brigade.

    Le caratteristiche terraces britanniche furono vietate in Inghilterra e Galles a partire dalla stagione 1994-95 seguendo le indicazioni del cosiddetto Rapporto Taylor. Il documento, redatto da una commissione presieduta del giudice Taylor, fu commissionato dal governo britannico per far luce sulle cause della tragedia di Hillsborough e per riformare gli standard di sicurezza all’interno degli stadi. La norma che vietava i posti in piedi, valida solo in Inghilterra e Galles, fu adottata anche dalla Scottish Premiere League.

    A giugno scorso però, dopo anni di negoziati, il Celtic ha ottenuto i permessi dalle autorità scozzesi per inaugurare un moderno settore in cui si possa assistere in piedi alla partita. A contribuire al rilancio delle standing areas è intervenuta anche la sentenza definitiva sulla tragedia di Hillsborough, che individua le maggiori responsabilità nell’operato della polizia inglese.

    Quella contro l’obbligo di sedersi è una rivendicazione trasversale portata avanti da più di quindici anni da numerose associazioni di tifosi britannici. Nel 2012 un sondaggio della Football Supporters’ Federation ha reso noto che il 54% dei 4000 tifosi intervistati preferiva assistere alle partite di calcio in piedi e che oltre il 91% riteneva giusto lasciare al tifoso la libertà di scegliere tra il posto a sedere o quello in piedi.

    Chi caldeggia il ritorno dei posti in piedi prende a modello l’Europa centrale, in particolare la Germania. Da tempo nei principali campionati tedeschi i vantaggi delle safe-standing areas vengono dimostrati in molti stadi. Perché è innegabile che, se da una parte tali settori contribuiscono a rendere l’atmosfera allo stadio molto più trascinante, dall’altra permettono ai tifosi di stare in piedi in aree sicure in cui l’effetto “valanga” può essere impedito dalle ringhiere installate tra una fila e l’altra. Senza dimenticare che permettono di abbassare notevolmente i prezzi di una parte dello stadio, cosa non da poco in un momento in cui il caro-biglietti è un problema riconosciuto a livello internazionale.

    Il merito del calcio tedesco è infatti quello di attirare allo stadio un pubblico socialmente molto differenziato, anche per squadre piene di campioni. I biglietti nell’area situata dietro le due porte del Bayern Monaco per le partite di Bundesliga costano solo 15 euro: meno di quanto chiedono molti club italiani per uno spettacolo di livello certamente più basso. Una delle curve più celebri al mondo, il Muro Giallo del Borussia Dortmund, è una standing area da 25 mila posti: il biglietto per assistere a un match di campionato costa poco meno di 17 euro.

    Stare in piedi allo stadio è bello per chi ama tifare, è utile al fine di supportare i giocatori e soprattutto è quello che vogliono i tifosi. Come ha dichiarato l’amministratore delegato del Celtic, Peter Lawwell, “la realtà nel calcio globale è che molti tifosi scelgono di stare in piedi durante le partite. Noi dobbiamo solo accettare e coordinare tale pratica, capendo allo stesso tempo l’impatto positivo che ha sull’atmosfera allo stadio”.

    Ma non tutti i club nel Regno Unito vedono di buon occhio i tifosi che allo stadio preferiscono cantare e stare in piedi: nel video Behind Leicester City pubblicato da Mondo Futbol, due tifosi del gruppo Union FS del Leicester raccontano di come la dirigenza abbia operato proprio per reprimere tale pratica.

    Come segnala il blog Info Azionariato Popolare, l’esperienza dei bianco-verdi di Glasgow potrebbe avere dei risvolti anche in Inghilterra e Galles. I tifosi di club come Manchester United, Chelsea e Arsenal hanno da tempo dato vita a campagne per richiedere i posti in piedi, così come alcuni club gallesi hanno presentato dei progetti ufficiali con l’appoggio dell’Assemblea del Galles.

    Anche in Italia l’argomento non ha lasciato indifferenti associazioni e gruppi di tifosi. Nel dicembre 2011, in vista della costruzione del nuovo stadio della Roma, il Supporters’ TrustMyROMA ha inoltrato alla dirigenza una lettera in cui si chiedeva di prevedere nel progetto della nuova Curva Sud una standing area. E se l’architetto Dan Meis aveva dichiarato al settimanale Bloomberg Businessweek che “i tifosi saranno comunque contenti poiché i sedili si potranno ripiegare”, la Roma ha invece lasciato trapelare che la standing area nel nuovo stadio non ci sarà.

    La UEFA prevede che le coppe europee si disputino in stadi interamente coperti da seggiolini: questo costringe i club a montare e smontare i posti a sedere nelle standing areas o a dotarsi di seggiolini chiamati rail seat, come quello mostrato nel video

    Tornando alla Scozia e al resto del Regno Unito, la strada sembrerebbe dunque segnata: i pro delle safe-standing areas sono troppi, i contro sono troppo pochi e spesso pretestuosi. Resta solo da capire quanto impiegheranno le autorità e i club britannici nel cedere a una richiesta che viene da più parti. E da vedere se in Italia, per una volta, decideremo di essere pionieri dell’innovazione in campo sportivo, o se come al solito agiremo con il tradizionale decennio di ritardo.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 5 maggio 2016

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  • Elezioni Roma 2016, ecco le proposte per lo sport di tutti i candidati

    Il 5 giugno Roma è chiamata a scegliere tra 13 candidati sindaco. Questo articolo vuole essere una mini-guida ai programmi elettorali che riguardano lo sport a Roma. Ho utilizzato come fonte principale i programmi ufficiali pubblicati dai candidati, che ho occasionalmente integrato con dichiarazioni rilasciate alla stampa.

    Alcune premesse prima di cominciare. La candidatura per ospitare le Olimpiadi 2024 è l’argomento relativo allo sport che è stato affrontato con più frequenza dai candidati. Il problema, a mio avviso, è che i candidati a favore della candidatura la hanno spesso definita come un’occasione imperdibile per intervenire in maniera efficace sul rilancio dello sport di base e sul recupero degli impianti pubblici che versano in pessime condizioni. Ovvero, fanno dipendere ciò che dovrebbe essere l’ordinario da un evento straordinario. Ma, poiché lo stesso Malagò ha dichiarato che Roma ha solo il 20% di possibilità di aggiudicarsi le Olimpiadi, la domanda sorge spontanea: se quel restante 80% dovesse avverarsi, cosa ne sarà dei piani per il rilancio dello sport a Roma?

    Il progetto del nuovo stadio della Roma (che in realtà non sarà di proprietà diretta dell’AS Roma, ma questa è un’altra storia) è probabilmente il secondo tema sportivo su cui più si sono spesi i candidati. In questo articolo, però, si vuole centrare l’attenzione sullo sport di base, sull’impiantistica usata quotidianamente, sull’ordinario, come detto, e non sullo straordinario. E il nuovo stadio voluto da Pallotta e soci ha ben poco di ordinario, essendo un maxi-progetto finanziato da investimenti privati. Altro discorso sarebbe se allo stadio si accompagnasse la realizzazione di strutture nelle periferie e la riqualifica di Campo Testaccio a spese della società giallorossa: ma di questi due interventi, entrambi promessi dalla dirigenza della Roma, non si è più sentito parlare.

    Olimpiadi e stadio della Roma hanno conquistato facilmente la ribalta delle prime pagine. Più difficilmente, invece, i media hanno dato risalto a questioni legate alla concessione degli impianti pubblici, all’accessibilità dello sport e alla difficoltà di sopravvivenza di numerose associazioni sportive. Allo stesso modo, si è sentito raramente parlare di progetti di rigenerazione per impianti come la Città dello Sport di Calatrava a Tor Vergata, mai terminata e costata centinaia di milioni, o il polo natatorio di San Paolo, utilizzato per i Mondiali di Nuoto del 2009 e poi abbandonato. Ma veniamo ai programmi, presentati seguendo l’ordine ufficiale consultabile sul sito del Comune.

    ALESSANDRO MUSTILLO

    Il programma elettorale del giovane candidato del Partito Comunista prevede di aumentare la trasparenza nell’assegnazione degli impianti comunali, “diversificando società a natura privata da associazioni di sport popolare”. Il candidato del Partico Comunista mira a porre fine a quella che è stata chiamata l’affittopoli dello sport, con circoli di lusso che pagano affitti ridicoli alle casse del Comune. Mustillo, inoltre, si prefigge di aumentare gli impianti sportivi pubblici e di accordarsi con le federazioni nazionali e le associazioni sportive romane per il loro utilizzo, così come di riqualificare lo Stadio Flaminio per farne “il progetto di punta dello sport popolare nella città”.

    VIRGINIA RAGGI

    Al punto 9 del suo programma per il Campidoglio, Virginia Raggi presenta una lista di impegni: “verificare la messa in regola degli impianti (accatastamento, collaudo, agibilità) ed eliminare le barriere architettoniche presenti; riassegnare le strutture, pur assegnate, ma in stato di abbandono; approvare un nuovo Regolamento per gli impianti sportivi di proprietà di Roma Capitale; rimodulare le tariffe comunali differenziandole per attività sportiva”.

    Inoltre, il Movimento 5 Stelle si impegna a promuovere lo sport di gruppo e l’impiantistica leggera, andando a creare delle “palestre a cielo aperto”, nonché di aumentare i “punti jogging”, gli skatepark e i percorsi ciclabili.

    FABRIZIO VERDUCHI

    L’unico punto riconducibile allo sport del suo programma è la realizzazione di 50 chilometri di piste ciclo-pedonali. Per il resto, il candidato di Italia Cristiana ha scelto di non trattare temi legati allo sport.

    GIORGIA MELONI

    Il programma di Giorgia Meloni si concentra soprattutto sulle Olimpiadi e sullo stadio della Roma. A questi due temi si aggiungono il recupero delle strutture sportive abbandonate e il rilancio del Regolamento degli impianti sportivi, “per permettere ai concessionari di rendere un servizio adeguato, investire nel potenziamento dell’offerta, costruire nuovi impianti”. La candidata ha inoltre pubblicato un video che mostra la sua visita a Campo Testaccio, promettendone la riapertura come centro sportivo comunale, e un altro che la ritrae dentro lo Stadio Flaminio, che nei suoi piani dovrebbe divenire la Casa dello Sport, “una struttura sportiva polifunzionale di cui i romani possano godere 365 giorni l’anno”.

    CARLO RIENZI

    Sul sito del Codacons, cliccando su “programma”, appare un volantino che non contempla temi sportivi. Tuttavia, il numero uno del coordinamento di associazioni dei consumatori ha proposto a Francesco Totti di divenire assessore allo sport, per poi dichiarare qualche giorno dopo: “Siamo molto delusi del silenzio di Totti. Noi abbiamo denunciato che Totti fa pubblicità al gioco d’azzardo, evidentemente deve essersela legata al dito perché non ci ha proprio risposto”.

    MICHEL EMI MARITATO

    Nel programma del candidato di AssoTutela, oltre ad un elogio della pratica sportiva come strumento di crescita umana, appare una sola proposta concreta: quella di “ampliare gli spazi di pratica sportiva”.

    ALFREDO IORIO

    Il candidato che ha tappezzato la città con manifesti inneggianti alla resistenza contro l’invasione aliena non ha un programma elettorale, o quantomeno il suo programma non è reperibile dopo più di 20 minuti di ricerca sui siti e sulle pagine social della sua lista e delle sigle che lo appoggiano (Trifoglio, Msi, Forza Nuova, Fiamma Nazionale).

    ROBERTO GIACHETTI

    La sezione relativa allo sport del programma di Roberto Giachetti è la più estesa tra quelle di tutti i candidati. A partire da pagina 75 sono descritte numerose proposte, che qui è impossibile elencare tutte esaustivamente, tra cui: valorizzazione delle associazioni che promuovono lo sport tra le fasce più deboli e tra i disabili; impegno nel garantire le pari opportunità di accesso allo sport; censimento e riqualifica delle strutture comunali degradate; sostegno delle attività economiche relative allo sport; nuovo Regolamento degli impianti sportivi e lotta a concessioni irregolari e morosità; introduzione dei “Buoni sport” per permettere ai giovani provenienti da famiglie economicamente svantaggiate di fare sport; investimenti sullo sport all’aperto; aumento delle strutture per sport come skateboard, bmx e parkour; speciale attenzione per sanare la ferita dello Stadio Flaminio.

    SIMONE DI STEFANO

    Nemmeno per Di Stefano è stato possibile rintracciare online un programma elettorale, né dichiarazioni relative a politiche sportive da attuare a Roma.

    STEFANO FASSINA

    Nel programma per il Campidoglio di Stefano Fassina lo sport è definito un “pilastro del welfare municipale”. Uno dei primi punti è quello della lotta ai canoni ridicoli pagati da privati che erogano servizi a prezzi di mercato e hanno all’interno dei circoli attività di ristorazione e negozi. Allo stesso tempo, si promette di privilegiare nell’affitto delle strutture comunali le realtà che hanno già dimostrato di saper svolgere un’attività di pubblica utilità. Un’altra proposta è quella di “realizzare un piano generale di servizi sportivi in ogni municipio, stabilendo discipline, tariffe, modalità di erogazione (per esempio ingressi giornalieri per le piscine), collegamenti con le scuole, con le ASL, coi centri anziani”. Infine, Fassina si impegna nella riattivazione e riqualifica di impianti come il Palazzetto dello Sport, lo Stadio Flaminio, la pista di atletica Paolo Rosi e quella delle, la piscina ex GIL di Montesacro e la palestra di scherma di via Sannio.

    DARIO DI FRANCESCO

    Anche il candidato sostenuto dall’Unione Pensionati e da alcune liste “clone” di quelle più famose ha ritenuto opportuno non dare diffusione al proprio programma elettorale.

    ALFIO MARCHINI

    Dei 101 punti del programma di Marchini, nessuno riguarda specificamente lo sport e le sue strutture. Eppure, il 25 maggio scorso, ha firmato presso un lounge bar di Roma Nord il “Patto per lo Sport”, proposto da un candidato della Lista Storace: un decalogo di impegni per lo sport a Roma che, tuttavia, non è reperibile online. Nel programma della Lista Storace, che appoggia la candidatura di Marchini, è invece presente un punto relativo allo sport. Recita (in versione integrale): “Impianti sportivi per ogni quartiere di Roma”. 

    Infine, Alfio Marchini ha già annunciato il nome del suo eventuale assessore allo sport: è quello di Manuela Di Centa, ex fondista, medaglia d’oro alle Olimpiadi invernali del 1994, e poi deputata con Forza Italia e PdL per otto anni.

    MARIO ADINOLFI

    Nel programma del Popolo della Famiglia la parola “sport” appare tre volte, ma senza associarsi ad alcun progetto di politiche sportive per la città. Due di queste volte è associata a misure repressive: “Particolare severità verso chi corrompe o tenta di corrompere, all’interno del mondo della scuola, dei media e dello sport, i giovani” e “un sistema legale severo e ben conosciuto che stronchi i fautori e responsabili di: 1) pedofilia, 2) violenza sessuale, 3) diffusione delle droghe; 4) promotori del loro uso e della cultura dello sballo, 5) doping sportivo, 6) teppismo negli stadi, 6) degrado di città e beni culturali”.

    Non sappiamo dunque quali siano le politiche sportive che Mario Adinolfi ha pensato per la città di Roma. Sappiamo, tuttavia, che il candidato è un estimatore di Claudio Lotito, al quale ha anche dedicato questo Elogio di Claudio Lotito nel 2014.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 2 maggio 2016

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  • Dario Hubner che fa tre goal da ubriaco: storia di una bufala

    Dario Hubner che, dopo essersi ubriacato di sambuca e Caffè Borghetti con gli ultrà, entra in campo e fa una tripletta. Storie stupende, che solo il calcio sa regalarci. O almeno questo è quello che devono aver pensato migliaia di fan che su Facebook hanno apprezzato questa storia,quando l’hanno letta sulla pagina ufficiale della Serie A Tim. La trama è davvero poco credibile, ma la fonte è certa: potrebbe mai la pagina ufficiale della Serie A raccontare una cosa del genere senza aver svolto le opportune verifiche?

    Sì. Lo ha fatto, è stata tempestata di critiche e prese in giro, ha eliminato il contenuto e poi ha chiesto scusa. Non una bella figura. Come è stato possibile?

    Per spiegarlo bisogna considerare che, nel mondo di Facebook, è molto comune che le pagine si approprino di contenuti altrui riproponendoli come propri. Certo, parliamo di pagine gestite liberamente da amministratori indipendenti, che non devono rendere conto a nessuno della propria netiquette. A volte però l’esecrabile uso del copia-incolla è praticato anche dai social media manager di canali ufficiali, seguiti da milioni di fan. Talvolta, anche questi professionisti cascano nella fallace equazione secondo cui ciò che è di successo è per forza anche veritiero.

    D’altra parte, la storia del Bisonte che entra in campo ubriaco e ne mette tre era stata condivisa da numerose pagine della calciosfera, raccogliendo decine di migliaia di like. Come poteva essere falsa?

    E invece lo era. Peggio: era una storia falsa pubblicata da una pagina che condivide solo storie false. Si chiama Storie romantiche sul calcio e in poche settimane ha raggiunto un seguito di quasi 25 mila persone.

    C’è chi, frustrato dopo aver realizzato che pubblicano solo fandonie, la critica aspramente. Dario Hubner ha minacciato azioni legali. Ma la descrizione della pagina parla chiaro: “Ci inventiamo storie sul calcio palesemente finte. Perché avete rotto il cazzo di far diventare tutto romantico. Perché la merda non è romantica”. I post prendono valanghe di like ed è difficile dire quanti provengano da persone che ne apprezzano l’umorismo e quanti da inguaribili creduloni.

    Al primo posto per numero di storie inventate figura il Leicester di Claudio Ranieri. Le Foxes dei miracoli le ricorderemo per sempre, proprio per la storia incredibile (e vera) che stanno scrivendo giornata dopo giornata. Eppure, come se la realtà non bastasse, la pagina ufficiale del sito Livescore24.it ha condiviso con i suoi quasi 200 mila fan il seguente racconto firmato da Jamie Vardy, ovviamente copiato da Storie romantiche sul calcio.

    «Sono un operaio io. Nel 2005 mi diedero cinque giorni di sospensione per essere arrivato ubriaco al lavoro, ma il lavoro continuò lo stesso. Figuratevi se ho paura di due giornate di squalifica che quelle fighette della Football Association potrebbero darmi. Se i miei compagni dovessero vincere sia contro lo Swansea che contro lo United mi bevo sei Coca e Fernet sotto Buckingham Palace. Siamo una squadra di matti noi».

    Insomma, storie e dichiarazioni così poco credibili da far sorgere qualche dubbio riguardo chi le ripropone su canali ufficiali: e se gli amministratori fossero coscienti della loro falsità, ma le pubblicassero perché, visto il flusso di utenti che portano, il gioco vale la candela? Cinico, ma più che possibile.

    Eppure, l’obiettivo di Storie romantiche sul calcio non è quello di ingannare i gestori delle più famose pagine Facebook che trattano di pallone. Abbiamo parlato con quel fango dell’amministratore (ci tiene a essere chiamato così, probabilmente è un epiteto ricevuto da qualche lettore deluso) per capire come e perché nasce il suo progetto: «Mi ero reso conto che c’erano pagine che sfruttavano l’onda del “romanticismo calcistico” inventando tante storielle per crescere di popolarità. Così ho deciso di creare la mia pagina per loro, per esaltare fino al ridicolo dichiarazioni assurde come quella di Vardy».

    L’oggetto della sua satira sono infatti alcune pagine Facebook che vanno per la maggiore, come si nota dai riferimenti più o meno espliciti: da quelle dedite ai bomberismi,«che ridono ancora per la barba di Moscardelli o per Borriello che segue una tizia a caso su Instagram», a quelle dei nostalgismi, «che per un pugno di like esaltano calciatori che non hanno mai segnato la nostra infanzia: davvero, chi si filava gente come Cleto Polonia o Pino Taglialatela?».

    Probabilmente tutti gli utenti dei social network hanno qualcosa da imparare dalla storia di Dario Hubner che fa tripletta ubriaco. Capita spesso di guardare distrattamente la home di Facebook, di leggere cose di sfuggita e di concedere il nostro like solo perché ci piacciono, senza domandarci se siano vere. Un po’ di attenzione e puzza sotto al naso in più possono aiutare a non fare brutte figure.

    Chi ha più da imparare, però, sono i professionisti che gestiscono la pagina Facebook della Serie A: abbiamo avuto la prova che anche loro copiano e incollano senza pietà. Insomma, da delle persone pagate per fare il lavoro di social media manager (peraltro con i soldi di noi appassionati, è bene ricordare) ci si aspetterebbe un comportamento deontologicamente più corretto.

    D’altronde, non è la prima volta che il canale ufficiale del campionato si rende protagonista di una gaffe. Nel 2012, durante un Roma-Novara giocato alle 12:30, la Curva Sud espose uno striscione che recitava: «13:12 buon pranzo a tutti». La pagina della Serie A ne condivise una foto, per poi cancellarla frettolosamente dopo aver letto i commenti di scherno. 1312 è infatti l’equivalente numerico dell’acronimo ACAB (all cops are bastards), slogan internazionale utilizzato contro la polizia.

    Cos’è dunque più grave per la pagina ufficiale di un campionato, insultare indirettamente tutti i poliziotti o rovinare il compleanno a Dario Hubner?

    PS: la Ceres è famosa per avere una strategia comunicativa acuta e irriverente. Qualità principale: seguono tutto ciò che accade sui social. Con questo post hanno espresso il loro sostegno a Storie romantiche sul calcio.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 28 aprile 2016

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  • La Serie B apre al crowdfunding con Tifosy

    È nata la partnership che metterà in connessione le squadre di Serie B con Tifosy, la piattaforma di crowdfunding inglese dedicata al mondo del calcio. Il CEO di Tifosy Fausto Zanetton e il co-fondatore Gianluca Vialli hanno presentato il progetto assieme ad Andrea Abodi durante l’assemblea di Lega B del 21 aprile. L’utilizzo degli strumenti e delle competenze di Tifosy erano a disposizione dei club anche prima dell’accordo, ma la Lega B fa sapere che “svolgerà un ruolo di facilitatore per l’incontro fra Tifosy e le associate”.

    Un po’ come Musicraiser per la musica, Tifosy è uno strumento di raccolta fondi tematico: permette di finanziare progetti presentati da club calcistici o comunque attinenti al mondo del calcio. A differenza delle principali piattaforme di crowdfunding, però, Tifosy non permette a chiunque di iniziare una campagna: i progetti vengono selezionati e strutturati di concerto tra i proponenti e l’azienda inglese.

    Tifosy ha lanciato finora otto campagne di finanziamento, di cui quattro portate a termine e altrettante ancora in corso. Tra quelle concluse, spicca senza dubbio #WeAreParma, che nell’ambito della rinascita del Parma Calcio 1913 ha fatto sì che i tifosi raccogliessero più di 170 mila euro per costruire il Museo Crociato dentro allo Stadio Tardini.

    In Inghilterra, invece, i tifosi del Bradford hanno messo insieme 150 mila sterline per dotare lo stadio di spogliatoi nuovi e di un maxi-schermo, mentre quelli del Portsmouth hanno finanziato buona parte del nuovo centro sportivo con 270 mila sterline.

    La prima fasedell’accordo con la Serie B prevede la partecipazione di quanti più tifosi possibili a un sondaggio online, con lo scopo di capire quali sono le piazze più adatte all’avvio di un crowdfunding. Seguirà dunque la fase di analisi dei dati e poi prenderanno vita i primi progetti.

    «Tuttavia», ci spiega Fausto Zanetton, «la prima campagna di crowdfunding consisterà nel finanziamento di un campo di calcio a Lampedusa. È un progetto di beneficenza fortemente voluto dalla Lega, destinato indistintamente ai locali e ai migranti».

    «Per quanto riguardo l’avvio dei primi progetti riguardanti i club di Serie B», continua Zanetton, «ci avvaliamo dei dati e dei consigli della Lega per capire dove è meglio cominciare. Alcune società si sono avvicinate, ma stiamo considerando tutto con molta calma perché devono essere idee e progetti credibili presentati da club stabili a livello societario e finanziario. Il ruolo della Lega è importante proprio per questo: sono i primi a non voler fare brutte figure».

    Rispetto alla possibilità che il crowdfunding venga utilizzato dai presidenti di B come mero strumento di raccolta fondi, il CEO di Tifosy risponde così: «Speriamo di poter promuovere la cultura del fan engagement, non solo in Italia ma anche nel Regno Unito. Anche lì per molti proprietari di club il crowdfunding è un concetto nuovo. Io spiego loro che sì, serve a ottenere soldi dai tifosi, ma il vantaggio principale è la partecipazione, coinvolgere la comunità in un progetto importante. Ad esempio, ora che le nuove training facilities del Portsmouth stanno aprendo, in città e sui social network c’è grande fermento e tutti si vantano di aver contribuito alla loro realizzazione».

    Tifosy si è dotata da poco della licenza per poter svolgere anche crowdfunding di tipo equity e debt-based. Il primo permette di contribuire a fondo perduto, come nel crowdfunding normale, ma ottenendo in cambio delle quote della società. Il secondo, utilizzato per finanziare progetti molto costosi (sì, anche stadi), è un vero e proprio prestito che i tifosi fanno al club: chi partecipa ottiene indietro i soldi con gli interessi e alcuni privilegi, ad esempio membership speciali.

    Dopo l’esperimento – ben riuscito – di Parma, Tifosy si prepara dunque allo sbarco su vasta scala nel calcio Italiano. Da un lato, il timore è che alcuni presidenti possano sfruttare la passione al solo scopo di ottenere un ulteriore finanziamento da parte dei tifosi, che già contribuiscono ampiamente pagando biglietti, merchandising e, indirettamente, abbonamenti alla pay tv.

    Dall’altro, la speranza è che strumenti del genere possano giovare al calcio italiano, permettendo alle dirigenze di capire il valore della comunità che si riunisce attorno a un club. Perché, è vero, di soldi ce n’è bisogno, ma c’è ancor più bisogno di ripensare il rapporto tra i club e i tifosi, in favore di una gestione più trasparente, inclusiva ed economicamente virtuosa delle società di calcio.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 28 aprile 2016

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  • “El Gordo” Ortigoza, dai tornei clandestini alla Copa Libertadores

    La rincorsa anomala, frontale rispetto al dischetto del rigore. Qualche falcata, una serie di passi fulminei, la frenata oscillante appena prima del tocco e poi… quell’attimo. Quella impercettibile frazione di secondo in cui Nestor Ortigoza capisce se il portiere va di qua, di là o lo aspetta. Quel momento in cui decide se aprire il piatto verso destra o tirare di collo a sinistra. Segue un tiro secco e sicuro, se il portiere ha avuto la fretta di buttarsi, ma è un tiro violento e angolatissimo, se il portiere ha deciso di sfidare el Gordo aspettando che sia lui a fare la prima mossa.

    Nestor Ortigoza, mediano del San Lorenzo de Almagro, ritiene di aver trovato la chiave per segnare sempre, o quasi, su calcio di rigore. A dirlo non è lui, ma i suoi numeri: ad aprile 2016 ha segnato 32 su 33 rigori nel calcio professionistico, ma è probabile che a fine carriera la statistica sarà ancora più sconvolgente. La sua percentuale realizzativa è del 97%, con un solo rigore parato dal portiere e nessuno calciato fuori dallo specchio. A interrompere la serie positiva di 19 rigori realizzati è stato nel 2012 Nelson Ibáñez, portiere del Godoy Cruz.
    Le ottime doti tecniche del centrocampista argentino naturalizzato paraguaiano non possono bastare a spiegare la sua quasi totale infallibilità dal dischetto. Giocatori che certamente si sono distinti più di lui dal punto di vista della qualità hanno inciso molto meno su rigore. La sua vicenda biografica è certamente una chiave per capire dove Orti trovi la freddezza, l’intuito e la perfezione tecnica per mettere a segno i suoi calci di rigore.

    Nestor Ezequiel Ortigoza nasce nel 1984 in una zona povera a ovest di Buenos Aires. Il soprannome con cui lo chiamano oggi i suoi tifosi, el Gordo, racconta di un ragazzo dal viso rotondo e dal fisico certamente robusto. A dispetto dell’anagrafe, sin da piccolo nel suo quartiere tutti lo chiamano Jonatan: è come avrebbero voluto chiamarlo i genitori, ma in quegli anni la recente ferita della guerra delle Isole Malvinas vietava nomi inglesi.

    Le condizioni economiche della famiglia Ortigoza non permettono al figlio di dedicarsi al calcio in via esclusiva: dopo gli allenamenti vende quaderni, gelati, scarpe, caramelle e altri beni ai semafori e sui treni. Nonostante ciò, il miglior modo per guadagnare qualche soldo in più è un altro. Lo zio Manuel lo porta di notte a vedere i tornei clandestini di calci di rigore a cui prende parte. Chi gioca vince soldi, chi guarda scommette.

    Per più di un anno, Nestor osserva lo zio e gli altri partecipanti calciare migliaia di rigori, durante interminabili tornei a eliminazione che durano dalla sera del venerdì all’alba del sabato. Come tutti i bambini, vuole copiare gli adulti: prende un pallone e passa i pomeriggi a colpire gli alberi per strada. Grazie all’imitazione e all’allenamento precoce e solitario, Nestor sviluppa un piede sopraffino, che gli permette presto di partecipare ai tornei e di portare a casa somme cospicue di denaro.

    È qui che perfeziona la strategia con cui realizza i rigori, dai campi in terra alla Primera División. Così la descrive a Canchallena: “Aspetto il portiere fino all’ultimo istante. Se non si muove, tiro forte a un palo. Lo decido sul momento, ma bisogna avere grande coordinazione, perché è difficile cambiare tutto a un passo dal pallone. Ma io ormai sono abituato”.

    Sempre in gioventù, Nestor affianca ai tornei di rigori quelli – anch’essi illegali, ma più tradizionali – di calcio a undici, grazie ai quali continua a guadagnare. Con una sua squadra del suo quartiere, la Central del 30, continua a frequentare i campi di terra anche durante le giovanili all’Argentinos Juniors, arrivando a giocarsi anche diecimila pesos a partita: “Una squadra metteva i soldi, lo stesso faceva l’altra. Partecipava alla scommessa anche gente esterna, scommettendo su una delle due squadre e garantendoci una percentuale”, ha descritto a El Gráfico.

    Nemmeno dopo lo sbarco in prima squadra si dedica esclusivamente al suo club: per guadagnare di più Ortigoza continua ad arrotondare con i tornei, così come a svolgere il mestiere di venditore ambulante. L’allenatore Ricardo Caruso Lombardi, cosciente della doppia vita sportiva del suo calciatore, così come dei suoi mestieri complementari, intercede presso la dirigenza del club e ottiene per lui un contratto più vantaggioso.

    Per le sue origini umili, per il suo carattere anticonformista e irriverente, Ortigoza ha sempre riscosso la simpatia dei tifosi delle squadre per cui gioca. Squadre che, salvo qualche mese in prestito in Argentina e negli Emirati Arabi, sono state solo due: Argentinos Juniors e San Lorenzo. Nemmeno la sua consacrazione definitiva nella squadra di Buenos Aires, che allontana del tutto i problemi economici, riesce a renderlo indifferente al richiamo del potrero. Una parola, intraducibile in italiano, che per un argentino richiama un’irregolare porzione di terreno su cui tra sassi e fango si pratica un gioco con poche regole e sottratto al controllo delle istituzioni. Il potrero è il luogo in cui Ortigoza, come molti campioni argentini, si è formato calcisticamente, riuscendo a mettere in risalto le proprie doti tecniche senza dimenticare l’aspetto fisico. Per una persona così attaccata alle sue origini e alla sua gente è difficile non ascoltarne il richiamo.

    A riguardo, un episodio descrive bene il suo carattere. Qualche anno fa alcuni tifosi azulgrana stavano assistendo ad un torneo amatoriale su un campo in terra.  È facile immaginare l’entusiasmo che li colse quando, del tutto a sorpresa, videro entrare in campo Ortigoza: un giocatore della massima serie che rischiava le caviglie su un campo non proprio leggero. Ma in fondo, per lui era del tutto normale: “Ero riserva e sapevo che la settimana dopo avrei dovuto giocare. Perciò sono andato a Catán con i miei amici: dovevo riprendere il ritmo!”, ha raccontato sempre a El Gráfico.

    Di episodi del genere, nella carriera di Ortigoza, ce ne sono senza fine, senza che l’incedere degli anni abbia contribuito a diminuirli. A settembre 2015 il San Lorenzo stava per giocarsi la vetta della classifica in casa del Boca Juniors, ma il giorno prima la nazionale del Paraguay aveva un’amichevole contro il Cile. Ortigoza si è rifiutato di scegliere: dopo 86 minuti giocati con la albirroja è corso all’aeroporto di Santiago, per arrivare a Buenos Aires alle quattro di mattina. Giusto in tempo per dormire qualche ora e recarsi alla Bombonera, dove a 18 minuti dalla fine è entrato cambiando l’andamento della partita.

    Con il San Lorenzo, Ortigoza ha segnato i due goal più importanti della sua carriera. Il primo ha regalato, alla fine del Torneo Clausura 2012, la salvezza al San Lorenzo. Si giocava lo spareggio di ritorno tra i cuervos e l’Instituto, squadra di seconda divisione. Gli ospiti si erano portati sullo 0-1, riducendo al minimo il vantaggio dei padroni di casa, che avevano vinto l’andata 2-0. Ortigoza segnò il goal dell’1-1 trascinando definitivamente il San Lorenzo fuori dall’incubo.

    Nel 2014 un altro suo goal ha invece portato al club di Boedo la prima Copa Libertadores della sua storia. Al 36° minuto Ortigoza ha fatto esplodere lo stadio del San Lorenzo, segnando l’unica rete della finale di ritorno contro il paraguaiano Club Nacional, dopo l’andata finita in parità. Grazie al suo goal il San Lorenzo, fondato nel 1904 da un prete per salvare dai tram un gruppo di ragazzini dediti al calcio di strada, ha toccato il punto più alto della propria storia. Non male per un calciatore che fino a qualche anno prima continuava a giocare nei potreros.

    Ovviamente, entrambi i goal sono stati su calcio di rigore.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 5 aprile 2016

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