In principio fu un parco. Campo del Retiro è il nome del posto in cui l’Athletic Club de Madrid, quando era solo una filiale dell’Athletic Bilbao, giocò la sua partita il 2 maggio del 1903. I primi soci, un gruppo di studenti baschi con nostalgia del loro Athletic Bilbao, ai quali si aggiunge un gruppo di fuoriusciti dal Madrid CF (non era ancora Real), appianavano la superficie sterrata e disegnavano le linee con le proprie mani. Il campo – stadio è una parola grossa – prendeva il nome dal vicinissimo Parco del Retiro, tuttora la più famosa e frequentata area verde di Madrid. Era un luogo aperto, uno spiazzo più che altro, e il fatto che venisse chiamato anche “Campo de la rana” rende bene l’idea di come quei pionieri giocassero in un ambiente più bucolico che sportivo.
Tag: madrid
-
L’Atletico Madrid ha usurpato l’identità dell’Athletic Bilbao?
Stando alle parole di Javier Aldazabal, segretario del consiglio direttivo del club basco, sì. Il dirigente dell’Athletic ha sollevato un polverone pronunciando queste parole durante l’assemblea annuale dei soci: «L’Athletic è un marchio. Al giorno d’oggi sarebbe impensabile che qualcuno inventasse la “Coca Cola di Biscaglia”, usurpando il nome di terzi. Per di più, loro hanno usurpato nome, colori e stemma dell’Athletic […]. Dopo 100 anni di uso consentito e pacifico adesso è complicato tornare indietro».
Il riferimento è a ciò che accadde nel 1903, quando fu fondata la squadra oggi chiamata Atlético de Madrid. Alcuni studenti baschi residenti a Madrid, tifosi dell’Athletic, decisero di porre fine alla nostalgia verso il club biancorosso fondandone una succursale madrilena. Fu così che fondarono l’Athletic Club Sucursal de Madrid, che riprese nome, colori e stemma di quello bilbaino. Anzi, l’affinità tra i due club era molto più profonda, in quanto quello di Madrid rimase fino al 1921 una vera e propria costola dell’Athletic Club di Bilbao. Basti pensare che il punto 6 dello statuto del neonato club dichiarava che le due squadre non si sarebbero mai potute affrontare in competizioni ufficiali.

Evoluzione dello stemma dell’Athletic Bilbao È proprio qui il nocciolo della questione. Seppur l’Atlético non ha voluto rispondere ufficialmente alle parole di Aldazabal, chi difende il club madrileno apporta una giustificazione forse superflua per la sua ovvietà: come si può tacciare di furto di identità un club che fu fondato proprio in omaggio all’Athletic, tanto da rappresentarne una succursale? Come ha dichiarato lo scrittore e giornalista sportivo José Antonio Martín, conosciuto in Spagna come Petón, «nelle vetrine dell’Athletic ci sono finali della Copa de España nelle quali furono schierati più giocatori dell’Athletic di Madrid che dell’Athletic di Bilbao».
La supposta usurpazione dei colori e dei simboli dell’Athletic fu invece un’azione concordata tra la dirigenza di Bilbao e la succursale di Madrid. Negli anni che seguirono la fondazione del distaccamento madrileno, entrambi i club indossavano una divisa mezza bianca e mezza blu, come quella dei Blackburn Rovers, e condividevano lo stemma che vedeva una “A” e una “C” sovrapposte e racchiuse in due fasce bianco-blu.

Evoluzione dello stemma dell’Atletico Madrid I due Athletic furono uniti anche nel cambio di colori: nel 1910 Juan Elorduy, giocatore e dirigente del club basco, si recò nel Regno Unito e con l’occasione ebbe l’incarico di comprare le maglie per entrambe le formazioni. Ma, come spesso è accaduto agli albori del calcio europeo, una casualità determinò l’andamento della storia: non riuscendo a trovare le divise del Blackburn, Elorduy tornò in terra iberica con quelle bianco-rosse del Southampton. La scelta di Elorduy, fatta all’ultimo minuto per non tornare a mani vuote, ancora oggi determina i colori sociali di Athletic e Atlético.
La separazione ufficiale dei due Athletic avvenne nel 1921, anche se già da anni il club di Madrid si era reso più indipendente. La finale di Copa del Rey di quello stesso anno vide per la prima volta opporsi le due formazioni sorelle, entrambe vincitrici del proprio campionato regionale. Il direttivo dell’Athletic di Bilbao chiese di poter giocare la finale nella capitale basca invece che a Siviglia, dove era prevista. Il presidente dell’Athletic di Madrid accettò e, complice la sconfitta, fu sommerso dalle critiche dei tifosi madrileni. La partita tuttavia si giocò in un clima di festa e il San Mamés con 20 mila spettatori fece record di incassi.
È dunque evidente che le parole pronunciate da Aldazabal siano state prive di senso e soprattutto di fondamento storico. Non è bello vedere come una storia di fratellanza durata quasi vent’anni sia oggi del tutto ignorata da chi rappresenta il club. Ma non si può criticare solo il dirigente dell’Athletic Bilbao. Da una rapida occhiata online, risulta evidente che la dirigenza dell’Atlético Madrid cerchi di nascondere il passato di squadra-succursale, considerato forse poco onorevole per un club il cui palmarés ha superato quello della squadra-madre.
Basta cliccare sulla sezione “Storia” del sito dell’Atlético per scoprire che l’obiettivo degli studenti baschi che lo fondarono era solo quello di creare “una nuova istituzione che avrebbe dovuto competere con il più nobile e impeccabile talento sportivo”. Ma come? Nessun riferimento al fatto che fossero tifosi dell’Athletic di Bilbao? Non si legge da nessuna parte che la fondazione del club di Madrid è stata un genuino atto di omaggio verso il club basco. Andando avanti sulla linea del tempo che presenta la pagina web, non si incontra alcun riferimento alla subalternità della squadra madrilena rispetto a quella basca. Lo stesso accade nella sezione dedicata alle maglie del club.
Ovviamente nessun dirigente dell’Atlético negherà mai esplicitamente il passato, ma è evidente il tentativo di nascondere il ventennio di subalternità nel “biglietto da visita” del club online, sia in spagnolo che in inglese. Questo aspetto non va sottovalutato, soprattutto per un club dalla vocazione internazionale come l’Atlético Madrid di oggi. E allora, se si vuole evitare altri errori da parte di dirigenti dell’Athletic, può essere forse utile aggiornare la propria presentazione online e ricordare al mondo di essere nati come succursale del club di Bilbao. Senza vergognarsi.
In copertina: “Idilio en los campos de sport”, dipinto di Aurelio Arteta (1913-15 ca), raffigurante il celebre attaccante dell’Athletic Bilbao “Pichichi” e la sua fidanzata
Pubblicato su Gioco Pulito l’1 novembre 2016
* * *
-
Rayo Vallecano, la classe operaia va in Oklahoma
Non un posto qualsiasi
A Madrid c’è un quartiere unico al mondo. Chiamarlo quartiere è riduttivo: è una porzione di città che prende dodici fermate di metropolitana, dal centro verso sud-est. Ma la questione non è solo urbanistica, perché al concetto di barrio sta stretta qualsiasi traduzione: mancano la solidarietà, la complicità e l’orgoglio che queste cinque lettere abbracciano nella loro sfera semantica. Soprattutto se il barrio in questione è quello di Vallecas.
L’indole degli abitanti, la storia politica, la boxe e il calcio hanno reso celebre Vallecas in Spagna e nel mondo. Ma non stiamo parlando di una zona ricca, anzi: a renderla nota ai più in passato sono stati anche droga, criminalità, orrori urbanistici e altre situazioni di disagio. Le sue contraddizioni a molti fanno paura, altri amano Vallecas proprio perché in essa vivono allo stesso tempo l’antico spirito popolare madrileno e una comunità inclusiva e multiculturale.
La sua squadra di calcio è il Rayo Vallecano, un club che da più di novant’anni vive per la sua gente, l’unico a portare mai il nome di un quartiere in Primera. Il suo stadio è il Campo de Fútbol de Vallecas, noto ai detrattori come el futbolín, il biliardino: sarà perché al posto di una curva ci sono due palazzi, sarà perché come dice il nome più che uno stadio è un campo di calcio vero e proprio.
Oggi il Rayo, dopo cinque gloriosi anni in Primera, se ne torna in Segunda División, la serie che storicamente è la sua casa. Lo fa dopo una stagione di speranze, ma anche con i dubbi sul comportamento di alcuni giocatori, indagati dalla LFP per sospetta combine nello scontro salvezza. Lo fa dopo la tragica sconfitta ad Anoeta e la peggiore combinazione possibile di risultati delle altre squadre, punito dal solo punto che lo separa da Sporting Gijón e Granada.
Ma non sarà questo articolo la sede del lamento per la squadra che in questi anni si è fatta amare dagli spiriti ribelli di mezza Europa. Non sarà nemmeno un tentativo di riassumere le pagine di storia sociale e politica del calcio che il Rayo e i suoi tifosi hanno scritto. Qui si racconterà la paradossale storia di come quella che probabilmente è la tifoseria più anticapitalista di Spagna si sia ritrovata strattonata da Occidente e da Oriente dalle due più grandi potenze industriali del mondo.
Tuoni e fulmini
Notizie di questo tipo possono giungere solo in due momenti dell’anno: il primo aprile o ad agosto. Purtroppo per i tifosi del Rayo, questa è arrivata nel mese in cui l’opinione pubblica è più distratta e l’asfalto di Vallecas si scioglie sotto il sole di Madrid. Ad annunciarlo, il quotidiano AS: «Il Rayo compra la maggioranza azionaria dell’Oklahoma City». Nei giorni a seguire arrivano le conferme: dal 2016 la NASL, seconda lega più importante del Nord America, ospiterà un nuovo club denominato Rayo Oklahoma City, simile a quello madrileno per nome, colori, maglia e stemma. Il presidente definisce l’operazione necessaria.
Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City: «Che cos’è il Rayo?».
Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City che sa cos’è il Rayo: «Il Rayo? Non è quella squadra in difficoltà economica da anni, che ogni stagione fa il mercato con un budget pari a zero?».
La reazione tipo del tifoso rayista quando apprende la notizia è meglio ometterla. Sta di fatto che ad agosto 2015 del Rayo proprio non si poteva dire che fosse una società in salute. Solo un anno prima il presidente Raúl Martín Presa aveva annunciato di voler tagliare i pochi fondi che alimentavano la squadra femminile, tre volte campione di Spagna dal 2009 al 2011, scatenando una sommossa popolare.
Sulla natura dell’accordo a stelle e strisce non ha mai smesso di gravitare un alone di mistero. Secondo El Confidencial, i diritti dell’Oklahoma City FC, defunta squadra locale che avrebbe dovuto partecipare al campionato NASL 2016, sono passati in mani spagnole per circa un milione di euro.
Ciò che è chiaro è che da quest’anno, oltre ai Thunder della pallacanestro, Oklahoma City può annoverare tra le proprie franchigie anche il Rayo OKC. Tuoni e fulmini, neanche a farlo apposta. La speranza è che il gioco di parole sia solo frutto di una coincidenza, altrimenti la vicenda acquisirebbe contorni ancora più grotteschi.

Il sogno americano
Facciamo un po’ di chiarezza. Oklahoma City già ha la sua squadra di calcio da due anni: si chiama Oklahoma Energy e milita nella USL, considerata la terza lega più importante dell’America settentrionale. I verde-blu dell’Energy hanno avuto un’affluenza media di 4600 spettatori durante il 2015 e giocano all’interno dei confini della città: col tempo stanno riuscendo nell’impresa di rendere il pallone uno sport di massa anche in una città che sembrava immune all’auge del soccer.
Il Rayo OKC fa invece parte delle tre nuove squadre che si sono da poco aggiunte alla NASL: con loro il Miami FC di Maldini, che come il Rayo OKC ha prende alla spring season 2016, e il Puerto Rico FC, che si aggiungerà a partire dalla competizione autunnale.
La creazione di una seconda squadra nella capitale dell’Oklahoma ha creato qualche polemica tra i locali. Il calcio maschile ad alti livelli ha sempre stentato a decollare, soprattutto a causa di conflitti societari e amministrativi. I dubbi principali sorgono dal fatto che la città non è grande e che in una fase di start-up del calcio locale è inutile sottrarsi risorse a vicenda. Il Rayo OKC, peraltro, giocherà a circa mezzora di macchina dal centro e difficilmente riuscirà ad essere identificato come squadra della città: punterà sugli abitanti dell’hinterland e soprattutto sui latinos.
Tra agosto e oggi le anticipazioni sono diventate realtà: il campionato primaverile della NASL è iniziato e il Rayo OKC naviga nella seconda metà della classifica, guidato dal canadese Alen Marcina. Nel frattempo, a Madrid non sono stati di certo a guardare. I Bukaneros, storici ultras che guidano la curva di Vallecas, hanno scritto insieme a numerose peñas un comunicato incandescente. Tifosi di ogni settore, intervistati dalla tv, hanno espresso ironicamente le proprie perplessità. L’hashtag #PresaVeteYa è tornato, per l’ennesima volta, alla ribalta sui social (sul personaggio di Presa ci sarebbero da scrivere pagine e pagine ma, anche in questo caso, non è questa l’occasione). E c’è addirittura chi ha ottenuto le bandiere rivali dell’Energy Oklahoma e le ha esposte fuori dallo stadio di Vallecas.

Fare arrabbiare il Presidente: lo stai facendo bene. Poniamoci una domanda: perché mai il proprietario di uno dei club più modesti della Liga dovrebbe comprare un club negli Stati Uniti? Quella che è stata definita una maniera di portare i valori del Rayo oltreoceano è ovviamente una mera operazione commerciale. Le finalità dietro un’iniziativa del genere possono essere molteplici: sfruttare il mercato di una città in cui il soccer non è ancora maturato, conquistare tifosi/clienti oltreoceano, scoprire nuovi talenti e parcheggiare giocatori da pensionare. Senza dimenticare i piani di Javier Tebas, presidente della LFP, di far sì che anche i club che non sono Barcellona e Real Madrid si espandano nel mondo: non a caso questa estate l’Eibar compirà un tour negli Stati Uniti e l’Espanyol si farà ammirare in Bolivia. I motivi ci sono e hanno poco a che vedere con i valori del Rayo, meno che mai con la sua tifoseria…
Ombre cinesi
L’asse Vallecas-Oklahoma non è il primo accordo internazionale che Martín Presa stringe senza ascoltare chi chiede una maggior concentrazione di energie verso i problemi che il club affronta ogni giorno. Sempre d’estate, ma nel 2014, una notizia aveva turbato non poco l’ambiente rayista: il Rayo avrebbe giocato la stagione con una scritta in cinese sulla maglia. L’impresa di telecomunicazioni Qbao, già proprietaria di un club a Nanchino, aveva scelto Rayo Vallecano e Real Sociedad come avamposti della sua espansione internazionale.
Peccato che pochi sapessero che l’accordo, oltre a prevedere un’amichevole in Cina tra le due squadre (tristemente ribattezzata “il derby di Qbao”), obbligasse il Rayo ad includere nella propria rosa un giocatore cinese. È così che la scorsa estate Zhang Chengdong, discutibile talento passato anche per le giovanili del Milan, pigramente ribattezzato Dudù (non a Milano, per sua fortuna), è stato accolto come un oggetto misterioso a Vallecas.
L’imposizione, oltre che delineare una delle infinite forme che l’ingerenza di “chi mette i soldi” può assumere nel mondo del calcio, ha mandato su tutte le furie l’allenatore Paco Jémez. Inutile dire che Chengdong non ha giocato quasi mai e a gennaio è tornato mestamente in Cina, anche se col vanto di essere stato il primo cinese nella storia della Liga.

Raúl Martín Presa, faccia da presidente che ha stretto un accordo con una multinazionale cinese. Zhang Chengdong, faccia da calciatore soprannominato Dudù. Felipe Miñambres, faccia da ds a cui è stato imposto di comprare un giocatore cinese. Può esistere un Rayo americano?
Il Rayo Vallecano è al momento una squadra di Segunda Divisiòn spagnola con uno sponsor cinese e una filiale negli Stati Uniti. Nonostante il supposto appeal internazionale, a Vallecas la situazione è destinata a rimanere pressoché uguale: lo stadio seguirà nella sua fatiscenza, il direttore sportivo continuerà a fare mercato prendendo gli scarti di altre società, la cantera e la squadra femminile dovranno ancora cavarsela con pochi spicci, il club continuerà a non avere una pagina Facebook, lo store annesso allo stadio non venderà altro che merce dalla qualità discutibile a prezzi alti.
E se questo, da un lato, è uno svantaggio, dall’altro il Rayo continuerà ad essere il Rayo anche per la congenita riluttanza del suo ambiente ai mali del calcio moderno. Certo, l’ideale sarebbe distinguere: una società calcistica moderna per una tifoseria d’altri tempi. Sul significato di “società calcistica moderna” potremmo dibattere per ore, ma a Martín Presa basterebbe ascoltare quello che la vox populi vallecana reclama ogni giorno. Perché, come hanno scritto i Bukaneros nel comunicato, difficilmente una squadra negli Stati Uniti attrarrà nuovi bambini e bambine del quartiere al Campo de Fútbol de Vallecas.
Il Rayo Oklahoma City, per una stagione, è esistito davvero. Il titolo di questo paragrafo era una domanda, ma la risposta è ben chiara: non può esistere un surrogato del Rayo Vallecano negli Stati Uniti. O meglio, può esistere certamente una squadra fake costruita copiando tutti gli aspetti esteriori del club di riferimento: maglia nome colori e stemma, come dicevamo. Ciò che non potrà mai accadere è che una squadra costruita artificialmente comunichi gli stessi valori di cui il Rayo è fucina a Madrid. Figuriamoci se questa squadra, che non sarebbe la stessa nemmeno se spostata in un altro quartiere di Madrid, possa conservare la sua identità dall’altra parte dell’oceano. Profanando Neruda: potranno piantare tutti i fiori ma non potranno ricreare la primavera.
Pubblicato su Crampi Sportivi nel 2015
* * *