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  • La prefazione di Antonio Padellaro a “Il calcio secondo Pasolini”

    Prefazone di Antonio Padellaro a “Il calcio secondo Pasolini”, pubblicata anche su “Il Fatto Quotidiano” del 31 ottobre 2018

    I dolori (per il pallone) del giovane Pier Paolo

    «Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre. (…) L’attesa è lancinante, emozionante. Dopo, al termine della partita, è un’altra faccenda, ci si rassegna al risultato, o si esulta». Quante volte recandomi allo stadio ho pensato la stessa cosa. E quante volte mi sono un poco vergognato di quell’attesa “lancinante, emozionante”: ma come, alla tua età palpitare ancora come un bamboccio…?

    Quando ho letto che Pier Paolo Pasolini provava esattamente ciò che io provo (e con me provano milioni di esseri umani) l’ho ringraziato dal profondo del cuore. Così come va ringraziato Valerio Curcio che con la sua ricerca attenta, documentata, appassionata ci ha raccontato l’umanità di uno dei massimi pensatori contemporanei, nella sua forma più autentica e intima.

    Perché continuare a blaterare (come molti blaterano) che in fondo si tratta “solo” di una partita di calcio è una bestemmia, un’idiozia e forse anche un crimine intellettuale (fermatemi!). A costoro direi di leggere Il calcio secondo Pasolini, prima di aprire bocca, se ciò servisse a qualcosa. Perché il tifo (o come vogliamo chiamarlo), il trasporto esclusivo, ossessivo per quei colori lì, l’avversione per quelle altre maglie là (non dirò quali), non prevede parole. Il sentimento che nel volgere di un attimo può illuminarti e poi trafiggerti, quindi trafiggerti e poi illuminarti fa parte di un’oscura e insieme radiosa cerimonia interiore che non può essere spiegata. Esiste e basta.

    Però il calcio non è solo spettacolo o condivisione o emozione stando seduti sugli spalti o davanti al teleschermo. Quel gioco siamo noi, se conserviamo ancora il vigore per dare quattro calci con gli amici. Quel gioco siamo stati noi quando, da ragazzini, catapultati da un’aula polverosa, disegnavamo in un prato o per strada le linee immaginarie di un campo ideale (e perfino i pali della porta, larghi da un sasso all’altro e alti una misura immaginaria come immaginaria era la traversa). Per quelle partite Pasolini, scrive Curcio, lasciava il set a Mosca per correre a Roma, e poi dopo scapicollarsi in aeroporto.

    Racconta Franco Citti che «finita l’esaltazione, il momento magico che lo faceva ritornare come un ragazzino a sorridere e a ridere, ritornava a essere solo, immediatamente si ritrovava ad annegare nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno». Sentite Dacia Maraini: «Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone, quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».

    Di più, di meglio non si può dire. «Dimmi cos’è, cos’è», canta Antonello Venditti mentre prendo posto nel luogo della sofferenza e della gioia. Leggete questo libro e comincerete a capire: cos’è.

    Antonio Padellaro

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  • Conversando con Dacia Maraini – Il calcio secondo Pasolini

    Intervista di Valerio Curcio a Dacia Maraini pubblicata in appendice a “Il calcio secondo Pasolini”, 2018, Aliberti Compagnia Editoriale

    Dacia Maraini è un’attenta osservatrice della nostra società e dei cambiamenti culturali che l’hanno caratterizzata nel tempo. APier Paolo Pasolini è stata legata non solo da una convinta vicinanza professionale tra intellettuali, ma soprattutto da uno stretto vincolo di amicizia e da una profonda condivisione di ideali e di vedute sulla vita e sulla società: come emerge da questa breve conversazione con l’autore del libro, in cui è stata “costretta” a parlare di calcio, pur se dal punto di vista biografico e artistico di Pasolini.

    Quanto contava il calcio nella quotidianità di Pasolini?

    Contava molto, non tanto nel senso del tifo, ma come gioco, anche erotico. Il suo modo di mettersi alla pari con i ragazzi di vita, il suo modo di immergersi nella gioia del moto e dello svago. Ricordo che una volta l’abbiamo perso di vista durante uno dei tanti viaggi in Africa e l’abbiamo cercato dappertutto senza trovarlo. Eravamo preoccupati. Poi improvvisamente, l’abbiamo visto in riva al mare che giocava a calcio con una banda di adolescenti. Era bravissimo e infilava un gol dietro l’altro. Era chiaro che quei ragazzi lo ammiravano e ne erano affascinati, pur non sapendo che era un famoso scrittore e un famoso regista. Ancora ricordo la sua felicità, il suo impegno, la sua gioia nel correre in mezzo alle dune. Si capiva che si sentiva finalmente libero dalla sua maschera sociale, dagli impegni pubblici e dai pettegolezzi di chi lo guardava con sospetto.

    Franco Citti ha raccontato che «dopo le partite, si ammusoniva di nuovo. Era come se all’improvviso cadesse un velo su tutto».

    Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato.

    PPP in campo con la maglia azzurra della nazionale dello spettacolo

    Dalle sue opere e dal suo vissuto emerge l’attrazione di Pasolini per un calcio fatto di corpi, muscoli in tensione, sudore. E i suoi compagni di squadra raccontano che nelle partite metteva in gioco il proprio corpo in maniera quasi narcisistica: la divisa sempre perfetta, la forma fisica smagliante, la ricercata attenzione dei fotografi. Lei ha definito la sua omosessualità come “curatela” e come “gioco”. Sembra una definizione assai calzante con tutto ciò.

    Certamente il gioco per lui era anche erotico. Giocando faceva l’amore simbolicamente con quei ragazzini che lo incantavano. Però ci tengo a dire che non c’era niente di violento e di aggressivo in lui. Il gioco era fatto di regole – che lui seguiva con attenzione – di rispetto per l’avversario e allegria del movimento. Tante volte lo hanno accusato di violenza, perfino, denunciato per quello. E invece Pier Paolo era un uomo mite e dolce. Solo a parole, nei suoi scritti, diventava provocatore e a volte anche aggressivo, ma nella vita era pacato e gentile. Non avrebbe fatto male a una mosca. Semmai si metteva nella condizione di suscitare la violenza altrui. Come tutte le persone timide, introverse e miti attirava l’aggressività dei prepotenti. E di fatto è morto così, fatto oggetto dell’odio e della violenza altrui.

    Nel 1963 intervistò i calciatori del Bologna per Comizi d’amore. Cosa è significato a quei tempi interrogare dei calciatori su un argomento come il sesso, allora di fatto ancora un tabù?

    Era qualcosa di innovativo e anticonformista. Ma, come ho detto, le sue domande non erano mai provocatorie o prepotenti. Lui voleva capire ed era molto attento ai giovani e ai loro sogni.

    «Che le donne giochino a pallone è uno sgradevole mimetismo un po’ scimmiesco. Esse sono negate al calcio come Benvenuti o Monzon». Questa fu la risposta che diede nel novembre 1975, in una delle sue ultime interviste, sulle pagine del «Guerin Sportivo».

    Se le donne giocano cercando di fare gli uomini, ha ragione lui. Se invece giocano per il piacere di giocare, senza imitare la brutalità e, diciamolo pure, la corruzione del grande calcio maschile, perché no, fanno bene.

    […] La partitella, nel cuore della borgata,
    tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura
    di sorella, di madre, coi golf dei giorni di lavoro,
    non hanno nulla da offrire alla nuova primavera…
    Correndo Giorgio ha la faccia di Carlo Levi,
    divinità propizia, facendo una rovesciata,
    Giannetto ha l’ilarità di Moravia, il Moro
    rimandando, è Vigorelli, quando s’arrabbia o abbraccia,
    e Coen, e Alicata, e Elsa Morante, e i redattori
    del Paese Sera o dell’Avanti, e Libero Bigiaretti,
    giocano con me, tra gli alberelli del Trullo,
    chi in difesa, chi all’attacco. Altri,
    con Pedalino dal maglione arancione
    o Ugo coi blue-jeans dell’anno scorso bianchi sul grembo,
    stanno appoggiati lungo il muro color miele della prigione
    delle loro case, Benedetti, Debenedetti, Nenni,
    Bertolucci con la faccia un po’ sbiancata dal sole,
    sotto la fiacca falda del cappello, e il dolce ghigno
    della certezza sacra degli incerti. […]

    PPP, “Pietro II”, in “Poesia in forma di rosa”

    In “Pietro II”, Pasolini sovrappone dei ragazzini impegnati in una partitella in borgata alle figure di intellettuali e politici del tempo, tra cui anche lei. Questo frequentare con disinvoltura tanto ambienti del sottoproletariato quanto élite culturali rappresenta in qualche modo un’altra delle apparenti contraddizioni della sua vita?

    Sì, Pier Paolo era spesso in contraddizione con sé stesso. Fra l’altro le donne che lo circondavano erano intellettuali, agguerrite, colte, consapevoli. Nelle donne cercava le sue simili. Nei ragazzi cercava invece l’altro, il corpo sessuato da conquistare e amare. Lui diceva spesso che non avrebbe mai potuto fare l’amore con una donna perché sarebbe stato come farlo con sua madre. Aveva un rapporto viscerale con la madre, evidentemente nato in famiglia quando il padre, da affettuoso e paterno, era diventato ostile e rabbioso. Il legame con la madre era diventato il solo sentimento forte della sua vita. Basta leggere alcune poesie che le ha dedicato. Sono struggenti dediche d’amore.

    È giusto ritenere che fu tra i primi a ravvisare l’avvento della società del consumo di massa anche in ambito sportivo?

    Con me non parlava di calcio. Ma certo molte sue parole suonano profetiche anche nei riguardi del calcio, soprattutto di quello ufficiale, legato ai troppi soldi e alla troppa pubblicità che hanno portato la corruzione all’interno del mondo sportivo.

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  • Pasolini e la Roma tra vita e romanzi: una storia di stadio e di borgate

    Quarantatré anni fa all’Idroscalo di Ostia veniva assassinato Pier Paolo Pasolini. Per tutta la vita, da Bologna al Friuli fino a Roma, il suo sguardo di profondo osservatore della società si rivolse anche al calcio. Tifoso rossoblù e appassionato calciatore amatoriale, non si vergognò mai dell’apparente contraddizione di intellettuale impegnato che si perdeva appresso a un gioco considerato qualunquista. Con la Roma ebbe un rapporto particolare. Nel 1957 “l’Unità” lo inviò all’Olimpico a seguire un derby vinto 3-0 dalla Roma, ma invece di farne la cronaca raccontò i settori popolari e popolati di giallorossi. Al suo fianco c’era Sergio Citti, in tasca un taccuino sui cui annotare qualche espressione del dialetto romanesco. Ma soprattutto, la Roma c’è nelle sue opere letterarie. I suoi protagonisti, quando sono tifosi, sono tifosi della Roma. Dalle baracche ai palazzoni fino ai vicoli dei rioni del centro, l’universo pasoliniano è genuinamente giallorosso. In questo capitolo, tratto da “Il calcio secondo Pasolini”, pubblicato da Aliberti Compagnia Editoriale, si ripercorre il suo rapporto biografico e letterario con la Roma.

    La fede calcistica di Pasolini non fu mai messa in discussione. Più volte fugò ogni dubbio, soprattutto durante gli anni romani: «Romanista non sono, e neanche laziale. So’ der Bologna», scrisse nel 1957. Eppure, un rapporto particolare lo legò alla squadra giallorossa. Pur non essendo romano di nascita, Pasolini è innegabilmente divenuto un simbolo di Roma, soprattutto delle sue periferie. La borgata romana adottò Pasolini e Pasolini adottò la borgata, continuando a frequentarla anche quando si trasferì in quartieri borghesi come Monteverde o l’EUR. Gran parte delle persone di cui si contornò nella capitale proveniva dalle zone dimenticate della città, e proprio lì, tra fabbriche e baracche, si avventurava in spedizioni alla ricerca di volti originali per un film. E i figli delle borgate, a partire dai suoi grandi amici Ninetto Davoli e i fratelli Citti, tifavano per la Roma.

    Pasolini a una partita della Nazionale dello spettacolo, fotografato da Umberto Pizzi

    Per naturale conseguenza, la Roma è la squadra di Tommaso Puzzilli e dei suoi amici in “Una vita violenta”. Come descrive Valerio Piccioni in “Quando giocava Pasolini”, i nomi dei calciatori dell’epoca vengono gridati come incitamento mentre si gioca a biliardino: c’è spazio per un «Daje, a Veleno!», soprannome dell’interista Benito Lorenzi, ma anche e soprattutto per un «Forza, a Treré!», centrale della Roma di quegli anni. In borgata il calcio è una cosa seria e attribuire a qualcuno il tifo per la squadra rivale può equivalere a un insulto: «An vedi questi! Ammazza che broccolo! […] ‘Sto laziale stronzo!», grida Tommaso a chi non lo fa giocare a biliardino. E in un’altra occasione, stavolta escluso da una partita di calcio vera e propria, Tommaso si lamenta: «Quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete ‘a Roma?». Poi, entrato in campo di prepotenza, si paragona a uno dei giocatori più tecnici della Roma del tempo: «Nun lo vedi che so’ Pandorfini so’?». Infine, nell’ultimo capitolo del romanzo, la sua vita è cambiata: al suo riscatto sociale è seguito quello morale, che culminerà con l’atto che lo porterà alla morte. Da simpatizzante prima fascista, poi democristiano, si è infine avvicinato al PCI durante la degenza in ospedale. Nella sua giacca, assieme al portafoglio con la tessera del partito, c’è una penna biro giallorossa: forse l’unico simbolo del suo passato che resiste.

    Anche nei primi racconti romani, datati 1950-51, la Roma è l’unica squadra evocata. Nel racconto “La passione del fusajaro” il venditore di fusaglie “Morbidone” si innamora di un maglione visto in una vetrina a Campo de’ Fiori e la sua infatuazione verso il costoso oggetto del desiderio lo porta a fantasticare: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica, a Ostia – no, alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto – a dispetto di Luciano e Gustarè – ed egli col maglione azzurro sarebbe andato a ballare in una sala del Trionfale: e avrebbe ballato con le più belle ragazze». Ed è della Roma anche l’ipotetico giornalista a cui si rivolge Pasolini nel racconto “Reportage sul Dio”, che si scommette il caffè con il barista sui risultati della squadra giallorossa.

    La pagina de “l’Unità” del 28 ottobre 1957 con l’articolo scritto da Pasolini inviato al derby

    Dialetto, giochi, scorribande, bagni nel fiume e nelle marrane: Pasolini è pronto a farsi coinvolgere in tutto ciò che il microcosmo delle borgate romane può offrirgli, compreso il tifo per una squadra di calcio. Sarebbe però scorretto affermare che iniziò a tifare per la Roma, perché mai rinnegò il suo esclusivo amore per il Bologna, ma è evidente che il suo interesse verso la squadra giallorossa andò ben oltre la semplice curiosità da osservatore. Il poeta Aldo Onorati parla esplicitamente di questa sua “simpatia” per la Roma: «Quando veniva a trovarmi ai Castelli Romani, si finiva per parlare anche di calcio. Io tenevo alla Lazio: squadra che lui, tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista, non vedeva proprio di buon occhio». A far crescere in lui questa simpatia romanista contribuì certamente Sergio Citti, che lo introdusse al mondo del tifo giallorosso nei settori popolari dell’Olimpico, coacervo di romanità da cui Pasolini rubava volti, espressioni, caratteri.

    Tuttavia Paolo Volponi, intervistato da Laura Betti nel documentario “Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno”, racconta di essere andato allo stadio con Pasolini, ma per altri motivi: «La Roma era famosissima perché aveva tanti assi ma perdeva sempre. Beccare in casa col Legnano, col Modena… Per noi era un divertimento immenso vedere come si disperava la folla romana di fronte a questi disastri che gli capitavano sistematicamente tutte le domeniche». Risulta difficile credere che Pasolini andasse allo stadio solo per soddisfare la sadica voglia di vedere gli altri disperarsi. Più probabile è che, come accadde nel derby del 1957 vinto dalla Roma e da lui raccontato per “l’Unità”, fosse naturalmente portato a schierarsi con i più deboli: «Non si può non avere simpatia per i vinti: i vittoriosi me lo concederanno…». Insomma: Pasolini si sentiva affine ai tifosi della Roma perché era la squadra del popolo, tifata nei degradati rioni del centro e nelle periferie dimenticate, dagli immigrati venuti dalle campagne, dai baraccati, dagli emarginati. Ma quando erano i più deboli a battere la squadra della capitale, non poteva che sorridere.

    “Il calcio secondo Pasolini” di Valerio Curcio è in libreria dal 31 ottobre 2018 per Aliberti Compagnia Editoriale; 144 pagine, 16 euro

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