Archive

Tag: Stati Uniti

  • MLS: i tifosi di Vancouver interrompono le trasferte negli USA in protesta contro Muslim Ban

    La tifoseria organizzata della squadra canadese Vancouver Whitecaps ha annullato la tradizionale trasferta a Portland, negli Stati Uniti, per tre partite amichevoli di pre-campionato. La scelta è dovuta alla recente pubblicazione dei divieti rinominati Muslim Ban, che vietano per tre mesi l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana. Il direttivo dei Southsiders, principale gruppo di tifosi della squadra canadese, ha dichiarato che alcuni dei circa 700 iscritti al gruppo sono direttamente colpiti dalle nuove misure volute da Donald Trump e non possono dunque accedere al suolo statunitense.

    I Southsiders non hanno ancora rilasciato comunicati ufficiali dopo che domenica 5 febbraio il giudice dello stato di Washington ha per ora sospeso il divieto di accesso a chi proviene dai sette paesi in lista. Il Dipartimento di Giustizia del governo statunitense ha presentato ricorso urgente, bocciato dalla Corte di Appello, che ha chiesto alle due parti di presentare più elementi. Nella notte italiana tra lunedì e martedì potrebbero esserci sviluppi, ma la vicenda rischia di protrarsi per molto tempo e arrivare alla Corte Suprema. Per ora, il divieto di accesso ai cittadini dei sette paesi musulmani non è attivo, ma non è detto che non vi siano ulteriori ribaltamenti di fronte prima delle partite, previste per 9, 12 e 15 febbraio.

    «Non possiamo renderci responsabili di organizzare eventi che potenzialmente escludono alcuni dei nostri membri, al di là di quale sia il numero degli iscritti colpiti dai divieti – hanno comunicato i tifosi con una nota diffusa il 31 gennaioIl nostro gruppo si fonda sui principi di inclusività, accoglienza e rispetto per chiunque abbia deciso di stare assieme a noi. Sin dai primi giorni abbiamo lottato a favore dell’uguaglianza e contro razzismo e intolleranza».

    «Non chiediamo ai nostri membri di boicottare la trasferta, ognuno farà la sua scelta – continua il comunicato – la nostra unica richiesta per chi andrà è quella di lasciare la sciarpa dei Southsiders a casa, come segno di rispetto per i membri che non possono attraversare il confine con la stessa facilità e libertà personale».

    Da quando sono entrati a far parte della Major League Soccer nel 2011, i Vancouver Whitecaps hanno sempre portato un gran numero di tifosi a Portland e Seattle. Le tre città vivono infatti una particolare tripla rivalità, che si esplica soprattutto nella Cascadia Cup: una competizione parallela alla MLS nella quale si calcolano solo i punti delle partite di regular season giocate tra le tre squadre del North-West.

    I Southsiders, fondati nel 1999, sono conosciuti per essere tra i gruppi più calorosi e rumorosi della MLS. Celebri per le loro “sciarpate”, si fanno riconoscere anche per il colorato corteo che da un pub si reca allo stadio prima di ogni partita. «Cerchiamo di tenere fuori i temi politici – ha dichiarato alla stampa il presidente del gruppo Peter Czimmermannma siamo quasi una famiglia e non organizzeremo un viaggio in cui qualcuno di noi resta escluso».

    Anche e se i divieti dovessero rimanere bloccati, è probabile che il gruppo non organizzi la trasferta per via del poco tempo a disposizione. Intanto la regular season si avvicina: l’edizione 2017 della Major League Soccer comincerà il 3 marzo e non è ancora chiaro se le restrizioni volute da Trump saranno attive fra un mese. Quel che è certo, però, è che dal Canada i Southsiders non si muoveranno senza la certezza di non dover lasciare a casa nessuno.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 6 febbraio 2017

    * * *

  • Alla scoperta dei “Sons of Ben”, i tifosi del Philadelphia Union nati prima della loro squadra

    I figli di Benjamn Franklin. Così si fanno chiamare i membri della tifoseria organizzata del Philadelphia Union, gruppo fondato nel gennaio 2007 che in questi giorni festeggia la prima decade di attività. I Sons of Ben anno una particolarità: sono nati due anni prima che la loro squadra facesse il suo debutto ufficiale.

    È un caso strano, possibile solo in un paese in cui il pallone non è mai andato di moda e in cui molte città sono abituate a non vedersi rappresentate nel calcio che conta. «Se non fosse stato per i Sons of Ben, il Philadelphia Union non esisterebbe». A dirlo è Tim Sosar, vice-presidente del gruppo ispirato a uno dei padri della patria statunitense, che mi racconta la loro storia: «Siamo nati nel 2007 con lo scopo di dimostrare alla MLS che nell’area metropolitana di Philadelphia c’era voglia di calcio, ma soprattutto il desiderio di una squadra che ci rappresentasse».

    Detto fatto: gli iscritti ai Sons of Ben sono divenuti migliaia, facendo drizzare le antenne dei vertici della MLS e degli investitori. Certo, chiedere che venga fondato un club è un qualcosa a cui in Europa non siamo molto abituati. Quando qualcuno ha avvertito la necessità di creare (o ri-creare) una squadra di calcio, si è dato da fare per farlo con le proprie mani. Numerose squadre fondate e gestite dai tifosi, United of Manchester e AFC Wimbledon per citare le più famose, rappresentano ormai un modello per qualsiasi gruppo che lamentasse la mancanza di un club di calcio.

    Ma nella terra del dollaro si ragiona diversamente e il primo passo è stato quello di dimostrare che c’era un nutrito gruppo di persone pronte a giurare fedeltà a un nuovo club. Insomma, far vedere che c’era la domanda e mancava totalmente l’offerta, servendo su un piatto d’argento un’importante occasione di business a chi fosse stato pronto ad investirci. E così è stato.

    A partire dal nome del gruppo dei suoi proto-tifosi, il Philadelphia Union si è caratterizzato per un’identità che travalica i confini della città in cui furono redatte la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione americana. «Come i Philadelphia 76ers – spiega Tim – l’Union ha puntato molto sulla storia della città e sul suo ruolo nel processo di formazione degli Stati Uniti».

    Il nome del club, scelto dai tifosi con una votazione, è un esplicito richiamo all’unione delle Tredici Colonie, così come i colori sono quelli dell’Esercito Continentale, che si oppose a quello inglese durante la Rivoluzione americana.

    Oltre a tredici stelle, nello stemma appare un serpente. È un riferimento a una delle più celebri caricature politiche di Benjamin Franklin, uscita con un suo editoriale sulla Pennsylvania Gazette nel 1754. Franklin esortava le colonie ad un maggiore spirito di unione: nella caricatura la scritta «JOIN, or DIE» era accompagnata da un serpente morto tagliato in tredici pezzi. La stessa frase è stata poi resa il motto ufficiale del Philadelphia Union: «Jungite aut Perite».

    I Sons of Ben occupano un settore dello stadio interamente dedicato a loro, chiamato The River End. Oltre ad aver scelto il nome, hanno contribuito a progettarlo, esortando la dirigenza ad allestire una standing area e postazioni apposite per chi lancia i cori, dove è permesso accendere fumogeni senza incorrere in sanzioni. Chiedo a Tim se la crescita della MLS sta andando di pari passo con l’allontanamento dei tifosi che praticano uno stile ultras di derivazione europea, ad esempio facendo uso di materiale pirotecnico e usando un linguaggio offensivo nei cori: «Ci sono regole come il divieto di usare torce che apparentemente dovrebbero scoraggiare gli “ultras”, il cui comportamento a volte può creare problemi. Ma credo anche che le autorità capiscano che c’è spazio per un po’ di questi comportamenti e provino a cercare dei compromessi. Ad esempio il club ha collaborato con noi e i vigili del fuoco per farci ottenere il permesso di usare fumogeni. Penso che la maggioranza dei tifosi rispettino le regole del club finché le regole stesse e la filosofia che vi è dietro sono trasparenti. Inoltre, rispetto a ciò che ho visto in altri paesi, credo che i tifosi americani siano un po’ più rispettosi verso i giocatori e i tifosi avversari».

    Mi dice Tim che il calcio non è nemmeno vicino a superare il football americano in quanto a interesse, ma arriverà il giorno in cui sarà uno degli sport più seguiti negli Stati Uniti. Come sport praticato, invece, la storia è diversa: molti genitori iniziano a preferire che i figli giochino a soccer piuttosto che a football, a causa della crescente preoccupazione riguardo le commozioni cerebrali provocate da quest’ultimo. «Quando ero bambino nella mia zona non c’era interesse verso il calcio – continua Tim – ma ora sì e non accenna a diminuire. Questo è un segno innegabile che i due sport sono quantomeno destinati a coesistere».

    Ma le differenze tra America ed Europa sono ancora grandi, dettate anche da fattori culturali: «Credo che i nordamericani non abbiano ancora compreso quanto il calcio sia una scelta di vita per gli europei, siano essi tifosi o giovani calciatori. Qui in America incoraggiamo i bambini a diversificare gli interessi, di conseguenza il coinvolgimento viene spartito in più attività. Questo potrebbe cambiare con le nuove generazioni che cresceranno con un club di MLS in città e una nazionale femminile di livello mondiale, ma siamo ancora agli inizi. Non è necessariamente una cosa negativa, è solo una fase che il calcio dovrà attraversare crescendo».

    Pubblicato su Gioco Pulito il 2 febbraio 2017

    * * *

  • Allo stadio negli States: a tu per tu con i Dallas Beer Guardians

    Incuriosito dal mondo dei tifosi di calcio nordamericani, ho deciso di contattare alcuni gruppi organizzati, per tentare di conoscere similitudini e differenze rispetto all’universo dei tifosi europei. I primi a rispondermi sono i Dallas Beer Guardians, un gruppo di supporters del Dallas FC che dal 2011 cantano e tifano seguendo un motto latino da loro coniato: Sanguinem, sudorem et cervisae. Sangue, sudore e birra, che segnala l’impegno profuso dai membri del gruppo per sostenere la squadra con cori e bandiere, ma anche la loro dedizione al luppolo. Ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con la loro presidente Bailey Brown. Proprio così: il gruppo ha un presidente ed è donna.

    Bailey mi descrive uno scenario molto diverso da quello europeo: «Negli Stati Uniti la maggior parte dei gruppi di tifosi sono delle organizzazioni no-profit registrate ufficialmente, che rispondono alle leggi locali ed eleggono i propri rappresentanti». In Italia abbiamo i cosiddetti club di tifosi, che sono spesso registrati come associazioni senza scopo di lucro e siedono in tribuna, ma raramente sostengono attivamente la squadra tifando, cantando e sventolando bandiere. I gruppi statunitensi sono invece la parte più calda della tifoseria. Ma più che un gruppo di tifosi, Bailey Brown definisce i Dallas Beer Guardians una famiglia. Anzi, una beer family.

    Come prima presidente donna del gruppo, sa di rappresentare il calcio americano che cambia, e con esso il suo bacino di tifosi: «Nei DBG le donne hanno gli stessi ruoli che gli uomini. Anzi, a volte è capitato che i tre lancia-cori fossero tutte ragazze. Sugli spalti del Toyota Stadium gli episodi di discriminazione sessista sono rari e sento che se avvenissero la gente non starebbe lì a guardare, perché siamo una comunità molto inclusiva e ci impegniamo perché sia così. A volte si avverte un sessismo sottile, quando ad esempio ti chiedono: “Sei venuta allo stadio col tuo ragazzo?”, ma credo che stia diminuendo. Noi donne in MLS siamo ancora una minoranza, è vero, ma sogno che un giorno la metà dei membri del nostro gruppo sia di sesso femminile».

    Mi spiega che quella da lei presieduta è un’organizzazione indipendente dal club e totalmente autofinanziata. Questo non significa che non ci sia collaborazione con la società: «Ci dobbiamo recare da loro per farci approvare striscioni e coreografie, organizzare cori con tutto lo stadio e chiedere il permesso di entrare in campo dopo la partita». Ma è anche il club a dover chiedere il permesso ai tifosi, ad esempio quando vogliono esporre il Supporters Shield in qualche evento: «Il Supporters Shield è un trofeo assegnato alla squadra che arriva prima a fine campionato, cioè prima dei play-off che ne decretano il vincitore. L’anno scorso il Dallas FC è arrivato primo, ma è poi uscito ai play-off contro i Seattle Sounders. Il premio è intitolato e assegnato fisicamente ai tifosi come segno di riconoscimento per il loro impegno. Al momento è a casa mia».

    I Dallas Beer Guardians si recano nei dintorni dello stadio tre-quattro ore prima del fischio d’inizio e danno vita al tailgate party: la particolare usanza nordamericana di animare i parcheggi degli stadi con grigliate, bevande alcoliche e musica, utilizzando come epicentro il bagagliaio – tailgate, appunto – di uno o più veicoli. «Nel prepartita l’allenatore e il direttore tecnico passano al parcheggio per fare due chiacchiere con noi e ricordarci quanto apprezzano il nostro sostegno», racconta Bailey. «Una volta entrati dentro stiamo in piedi, cantiamo e sventoliamo le bandiere per 90 minuti. Poi torniamo alla zona del tailgate per il post-partita».

    Le chiedo se ha riscontrato dei problemi diffusi in tutti gli Stati Uniti riguardanti il tifo, per i quali tifosi di MLS si possano attivare tutti insieme. Mi risponde che, secondo lei, le istanze sono più locali che nazionali: «Le leggi locali sono differenti, così come prezzi e regolamenti degli stadi, e ogni club ha il suo front-office che può essere più o meno collaborativo. Tuttavia ogni anno ci riuniamo con molte altre tifoserie nell’Independent Supporters Council, un organismo di coordinamento molto utile anche quando bisogna affrontare i problemi collettivamente».

    Sul loro sito ho letto che una coreografia da loro realizzata è detenuta dalla polizia. Le chiedo spiegazioni, aspettandomi di ascoltare storie già sentite: sequestrata perché non rispettava gli standard di sicurezza, perché non autorizzata o perché lanciava un messaggio non gradito. E invece mi coglie di sorpresa: «Il 7 luglio scorso a Dallas una persona ha ucciso cinque poliziotti che stavano facendo i volontari per proteggere dei manifestanti. La tragedia ci ha riguardato da vicino perché uno di loro era anche un collega di uno dei nostri membri. Abbiamo allora dipinto un grande stendardo in loro onore e dopo averlo esposto lo abbiamo regalato alla polizia di Dallas».

    Infine, le chiedo cosa possono imparare le tifoserie europee da quelle nordamericane, e viceversa: «Noi facciamo nostri cori e i modi di fare le coreografie. Ci ispiriamo sempre ai tifosi di ogni parte del mondo, adattando sempre il tutto alla nostra cultura. Ho difficoltà a dire cosa potrebbero imparare loro da noi, perché non so come si organizzano i gruppi in Europa. Una cosa che amo delle tifoserie americane è il grande impegno sociale in numerosi campi. Noi ad esempio organizziamo spesso raccolte di materiale tecnico per bambini in difficoltà, lavoriamo nei centri sociali, diamo una mano alle fattorie urbane… Fare attività benefiche fuori dallo stadio rende davvero i gruppi delle famiglie, delle comunità in cui ognuno dipende dall’altro».

    Pubblicato su Gioco Pulito il 26 gennaio 2017

    * * *

  • Copa América: gli Stati Uniti alla conquista del Fútbol

    La Copa América compie un secolo. E non importa che si sia giocata la scorsa estate in Cile, con la prima storica vittoria del paese ospitante. A giugno si svolgerà negli Stati Uniti la Copa América Centenario, prima edizione del campionato continentale più antico del mondo a tenersi fuori dal territorio sudamericano. Il torneo è come sempre organizzato dalle confederazione sudamericana CONMEBOL, che si avvarrà della collaborazione di quella dell’America centro-settentrionale e dei Caraibi, la CONCACAF, e della federazione del paese ospitante, la U.S. Soccer.

    I quattro gironi vedranno affrontarsi tutte le dieci squadre della confederazione sudamericana e sei rappresentative provenienti dal resto delle Americhe. La partita inaugurale sarà USA-Colombia e si svolgerà il 3 giugno al Levi’s Stadium a Santa Clara, in California, nell’impianto che ha ospitato anche il Super Bowl 50. La quarantacinquesima Copa América si configurerà come un vero e proprio torneo panamericano, nonché come il più importante evento calcistico negli Stati Uniti da USA 1994.

    Sono dieci gli stadi che accoglieranno le selezioni americane in tutto il territorio statunitense. New York ospiterà la finale nell’imponente MetLife Stadium, sede delle due squadre di football americano New York Giants e New York Jets. Tutti gli impianti selezionati hanno almeno 60.000 posti e sono situati in zone dalla forte concentrazione di popolazione latinoamericana: una scelta ovviamente non casuale.

    L’ex presidente della CONCACAF Alfredo Hawit, arrestato a dicembre 2015 nell’ambito degli scandali che hanno scosso la FIFA, nel 2012 aveva commentato così la decisione di svolgere il torneo negli Stati Uniti: “Perché il mercato è negli Stati Uniti, gli stadi sono negli Stati Uniti, la gente sta negli Stati Uniti”.

    Mercato, stadi, gente. Queste sembrerebbero essere le tre chiavi che hanno portato la CONMEBOL alla decisione di proporre la Copa América 2016 in versione a stelle e strisce. Mercato, perché un evento di questa portata nel paese del dollaro significa enorme attenzione internazionale e diritti tv ben pagati. Stadi, perché gli impianti che ospitano il football della NFL e il soccer della MLS sono tra i più moderni e capienti del continente. Gente, perché centinaia di migliaia di latinos non vedono l’ora riempire proprio quegli stadi senza doversi neanche spostare.

    I biglietti sono già in vendita, nonostante le polemiche. Il comitato organizzativo del torneo ha per ora messo in vendita solo i venue pass, ovvero i biglietti cumulativi che permettono l’accesso a tutte le partite previste in uno dei dieci stadi. I biglietti singoli usciranno solo se gli stadi non dovessero andare sold-out con i pass: una strategia mossa dall’esigenza di riempire gli enormi impianti anche per partite dal basso appeal. I prezzi, tra l’altro, non sono proprio popolari: come riporta Forbes, il costo medio di un venue pass è di 888 dollari. Con buona pace di chi, residente negli USA o all’estero, vorrebbe assistere ad una sola partita.

    Secondo il messicano La Aficiòn, gli organizzatori stimano di ottenere 120-180 milioni di dollari in biglietti e almeno altri 100 tra sponsor e diritti TV, per un totale di circa 300 milioni di dollari di ricavi. Numeri che permetterebbero all’edizione 2016 di raddoppiare i ricavi rispetto a Cile 2015, che portò circa 115 milioni di dollari nelle tasche della CONMEBOL.

    Insomma, non male per un’edizione nemmeno prevista dall’incedere quadriennale della competizione. D’altronde c’è un centenario da festeggiare, ma soprattutto c’è un particolare do ut des tra le confederazioni che vogliono battere cassa e una nazione che nei prossimi decenni punterà a conquistare anche il mondo del calcio. E cosa c’è di meglio che importare un prestigioso torneo continentale per mettere in mostra la propria nazionale maschile, che ottiene visibilità internazionale solo una volta ogni quattro anni col Mondiale?

    Al momento, non avendo da offrire grandi talenti o campionati granché avvincenti, gli Stati Uniti offrono al mondo del calcio ciò che hanno, e di certo non è poco: mercato, stadi e gente. Che siano gli ultimi inverni di un campione, tournée estive di grandi club o campionati continentali, le porte sono aperte.

    Nonostante adesso sembri tutto avviato, la coppia calcio sudamericano & mercato statunitense ha rischiato di scoppiare. Sarebbe stato difficile il contrario, quando l’intelligence statunitense fece venire allo scoperto la fitta trama di corruzione che per decenni avrebbe condizionato l’assegnazione di Mondiali, diritti TV e accordi di marketing legati alle competizioni.

    Quel 27 maggio 2015, nella retata presso l’Hotel Baur au Lac di Zurigo che sconvolse il calcio mondiale, finirono in manette anche Jeffrey Webb ed Eugenio Figueredo, i presidenti di CONCACAF e CONMEBOL. Esattamente le uniche due persone sedute al tavolo dei relatori durante la conferenza stampa di presentazione della Copa América Centenario. Non una bella immagine per la reputazione del torneo.

    Al centro dello scandalo finirono anche degli imprenditori: in particolare furono indagati gli argentini Alejandro Burzaco, CEO della “Torneos y Competencias”, e Hugo e Mariano Jinkis,a capo della “Full Play Group”. Le due società erano parte del gruppo Datisa, che con 320 milioni di dollari si era assicurato sponsorizzazione e diritti TV per le Copa América 2015, 2016, 2019 e 2023.

    Come riporta Inside World Football, l’FBI rilevò che Datisa, per aggiudicarsi i diritti, aveva acconsentito a pagare 110 milioni di dollari in tangenti a Webb, Figueredo e altri dirigenti FIFA. Nel dettaglio, sarebbero state pagate mazzette pari a 20 milioni per la firma del contratto, 30 milioni per l’edizione del centenario e 20 milioni per ognuna delle edizioni canoniche.

    La tabella a pagina 112 del documento d’accusa dell’FBI, che sintetizza tangenti e contratti relativi ad ogni edizione della Copa América

    Traducendo da pagina 105 del documento d’accusa diffuso dall’FBI, “ogni pagamento da 20 milioni andava suddiviso tra i destinatari delle tangenti come segue: 3 milioni a ognuno dei tre principali dirigenti della CONMEBOL (il presidente della confederazione e i presidenti delle federazioni argentina e brasiliana); 1.5 milioni a ognuno degli altri sette presidenti delle federazioni della CONMEBOL; 0,5 milioni a un undicesimo dirigente della CONMEBOL”.

    Non c’è dunque da stupirsi se in estate la U.S. Soccer presentò un documento segreto contenente una lista di condizioni alle quali la CONMEBOL avrebbe dovuto attenersi, se avesse voluto mantenere la possibilità di svolgere la Copa América negli Stati Uniti.

    Nel frattempo, i media statunitensi si chiedevano se non fosse il caso di rinunciare ad ospitare la competizione. Dopo l’emergere dello scandalo FIFA, nessuno poteva dire con certezza se la Copa América 2016 si sarebbe svolta negli Stati Uniti. A metà ottobre, poi, la mossa che rassicurò tutti: la CONMEBOL comunicava ufficialmente che il contratto con Datisa era stato rescisso bilateralmente. The show can go on.

    La Copa América Centenario si svolgerà dunque negli Stati Uniti dal 3 al 26 giugno 2016. Non è stata fermata né dal terremoto che ha sconvolto la FIFA, né dalla naturale diffidenza dei sudamericani nel disputare il loro torneo continentale in territorio yankee. I gironi sono usciti da poco e vedranno gli Stati Uniti impegnati in quello che è già stato definito “gruppo della morte” con Colombia, Costa Rica e Paraguay, mentre il duello con cui ci eravamo lasciati, quello tra Cile e Argentina, si riproporrà sin da subito nel girone D.

    Per i calciofili, la notizia è che a giugno che ci saranno sedici giorni di Europeo e Copa América in contemporanea. Se non avremo un atteggiamento troppo eurocentrico, potremo ogni tanto volgere lo sguardo all’altro lato del mondo, per accorgerci che con la prima vera coppa panamericana è iniziata una nuova era del calcio. Che tutto sarà, meno che eurocentrica.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 22 febbraio 2016

    * * *

  • Rayo Vallecano, la classe operaia va in Oklahoma

    Non un posto qualsiasi

    A Madrid c’è un quartiere unico al mondo. Chiamarlo quartiere è riduttivo: è una porzione di città che prende dodici fermate di metropolitana, dal centro verso sud-est. Ma la questione non è solo urbanistica, perché al concetto di barrio sta stretta qualsiasi traduzione: mancano la solidarietà, la complicità e l’orgoglio che queste cinque lettere abbracciano nella loro sfera semantica. Soprattutto se il barrio in questione è quello di Vallecas.

    L’indole degli abitanti, la storia politica, la boxe e il calcio hanno reso celebre Vallecas in Spagna e nel mondo. Ma non stiamo parlando di una zona ricca, anzi: a renderla nota ai più in passato sono stati anche droga, criminalità, orrori urbanistici e altre situazioni di disagio. Le sue contraddizioni a molti fanno paura, altri amano Vallecas proprio perché in essa vivono allo stesso tempo l’antico spirito popolare madrileno e una comunità inclusiva e multiculturale.

    La sua squadra di calcio è il Rayo Vallecano, un club che da più di novant’anni vive per la sua gente, l’unico a portare mai il nome di un quartiere in Primera. Il suo stadio è il Campo de Fútbol de Vallecas, noto ai detrattori come el futbolín, il biliardino: sarà perché al posto di una curva ci sono due palazzi, sarà perché come dice il nome più che uno stadio è un campo di calcio vero e proprio.

    Oggi il Rayo, dopo cinque gloriosi anni in Primera, se ne torna in Segunda División, la serie che storicamente è la sua casa. Lo fa dopo una stagione di speranze, ma anche con i dubbi sul comportamento di alcuni giocatori, indagati dalla LFP per sospetta combine nello scontro salvezza. Lo fa dopo la tragica sconfitta ad Anoeta e la peggiore combinazione possibile di risultati delle altre squadre, punito dal solo punto che lo separa da Sporting Gijón e Granada.

    Ma non sarà questo articolo la sede del lamento per la squadra che in questi anni si è fatta amare dagli spiriti ribelli di mezza Europa. Non sarà nemmeno un tentativo di riassumere le pagine di storia sociale e politica del calcio che il Rayo e i suoi tifosi hanno scritto. Qui si racconterà la paradossale storia di come quella che probabilmente è la tifoseria più anticapitalista di Spagna si sia ritrovata strattonata da Occidente e da Oriente dalle due più grandi potenze industriali del mondo.

    Tuoni e fulmini

    Notizie di questo tipo possono giungere solo in due momenti dell’anno: il primo aprile o ad agosto. Purtroppo per i tifosi del Rayo, questa è arrivata nel mese in cui l’opinione pubblica è più distratta e l’asfalto di Vallecas si scioglie sotto il sole di Madrid. Ad annunciarlo, il quotidiano AS: «Il Rayo compra la maggioranza azionaria dell’Oklahoma City». Nei giorni a seguire arrivano le conferme: dal 2016 la NASL, seconda lega più importante del Nord America, ospiterà un nuovo club denominato Rayo Oklahoma City, simile a quello madrileno per nome, colori, maglia e stemma. Il presidente definisce l’operazione necessaria.

    Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City: «Che cos’è il Rayo?».

    Reazione tipo dell’abitante di Oklahoma City che sa cos’è il Rayo: «Il Rayo? Non è quella squadra in difficoltà economica da anni, che ogni stagione fa il mercato con un budget pari a zero?».

    La reazione tipo del tifoso rayista quando apprende la notizia è meglio ometterla. Sta di fatto che ad agosto 2015 del Rayo proprio non si poteva dire che fosse una società in salute. Solo un anno prima il presidente Raúl Martín Presa aveva annunciato di voler tagliare i pochi fondi che alimentavano la squadra femminile, tre volte campione di Spagna dal 2009 al 2011, scatenando una sommossa popolare.

    Sulla natura dell’accordo a stelle e strisce non ha mai smesso di gravitare un alone di mistero. Secondo El Confidencial, i diritti dell’Oklahoma City FC, defunta squadra locale che avrebbe dovuto partecipare al campionato NASL 2016, sono passati in mani spagnole per circa un milione di euro.

    Ciò che è chiaro è che da quest’anno, oltre ai Thunder della pallacanestro, Oklahoma City può annoverare tra le proprie franchigie anche il Rayo OKC. Tuoni e fulmini, neanche a farlo apposta. La speranza è che il gioco di parole sia solo frutto di una coincidenza, altrimenti la vicenda acquisirebbe contorni ancora più grotteschi.

    Il sogno americano

    Facciamo un po’ di chiarezza. Oklahoma City già ha la sua squadra di calcio da due anni: si chiama Oklahoma Energy e milita nella USL, considerata la terza lega più importante dell’America settentrionale. I verde-blu dell’Energy hanno avuto un’affluenza media di 4600 spettatori durante il 2015 e giocano all’interno dei confini della città: col tempo stanno riuscendo nell’impresa di rendere il pallone uno sport di massa anche in una città che sembrava immune all’auge del soccer.

    Il Rayo OKC fa invece parte delle tre nuove squadre che si sono da poco aggiunte alla NASL: con loro il Miami FC di Maldini, che come il Rayo OKC ha prende alla spring season 2016, e il Puerto Rico FC, che si aggiungerà a partire dalla competizione autunnale.

    La creazione di una seconda squadra nella capitale dell’Oklahoma ha creato qualche polemica tra i locali. Il calcio maschile ad alti livelli ha sempre stentato a decollare, soprattutto a causa di conflitti societari e amministrativi. I dubbi principali sorgono dal fatto che la città non è grande e che in una fase di start-up del calcio locale è inutile sottrarsi risorse a vicenda. Il Rayo OKC, peraltro, giocherà a circa mezzora di macchina dal centro e difficilmente riuscirà ad essere identificato come squadra della città: punterà sugli abitanti dell’hinterland e soprattutto sui latinos.

    Tra agosto e oggi le anticipazioni sono diventate realtà: il campionato primaverile della NASL è iniziato e il Rayo OKC naviga nella seconda metà della classifica, guidato dal canadese Alen Marcina. Nel frattempo, a Madrid non sono stati di certo a guardare. I Bukaneros, storici ultras che guidano la curva di Vallecas, hanno scritto insieme a numerose peñas un comunicato incandescente. Tifosi di ogni settore, intervistati dalla tv, hanno espresso ironicamente le proprie perplessità. L’hashtag #PresaVeteYa è tornato, per l’ennesima volta, alla ribalta sui social (sul personaggio di Presa ci sarebbero da scrivere pagine e pagine ma, anche in questo caso, non è questa l’occasione). E c’è addirittura chi ha ottenuto le bandiere rivali dell’Energy Oklahoma e le ha esposte fuori dallo stadio di Vallecas.

    Fare arrabbiare il Presidente: lo stai facendo bene.

    Poniamoci una domanda: perché mai il proprietario di uno dei club più modesti della Liga dovrebbe comprare un club negli Stati Uniti? Quella che è stata definita una maniera di portare i valori del Rayo oltreoceano è ovviamente una mera operazione commerciale. Le finalità dietro un’iniziativa del genere possono essere molteplici: sfruttare il mercato di una città in cui il soccer non è ancora maturato, conquistare tifosi/clienti oltreoceano, scoprire nuovi talenti e parcheggiare giocatori da pensionare. Senza dimenticare i piani di Javier Tebas, presidente della LFP, di far sì che anche i club che non sono Barcellona e Real Madrid si espandano nel mondo: non a caso questa estate l’Eibar compirà un tour negli Stati Uniti e l’Espanyol si farà ammirare in Bolivia. I motivi ci sono e hanno poco a che vedere con i valori del Rayo, meno che mai con la sua tifoseria…    

    Ombre cinesi

    L’asse Vallecas-Oklahoma non è il primo accordo internazionale che Martín Presa stringe senza ascoltare chi chiede una maggior concentrazione di energie verso i problemi che il club affronta ogni giorno. Sempre d’estate, ma nel 2014, una notizia aveva turbato non poco l’ambiente rayista: il Rayo avrebbe giocato la stagione con una scritta in cinese sulla maglia. L’impresa di telecomunicazioni Qbao, già proprietaria di un club a Nanchino, aveva scelto Rayo Vallecano e Real Sociedad come avamposti della sua espansione internazionale.

    Peccato che pochi sapessero che l’accordo, oltre a prevedere un’amichevole in Cina tra le due squadre (tristemente ribattezzata “il derby di Qbao”), obbligasse il Rayo ad includere nella propria rosa un giocatore cinese. È così che la scorsa estate Zhang Chengdong, discutibile talento passato anche per le giovanili del Milan, pigramente ribattezzato Dudù (non a Milano, per sua fortuna), è stato accolto come un oggetto misterioso a Vallecas.

    L’imposizione, oltre che delineare una delle infinite forme che l’ingerenza di “chi mette i soldi” può assumere nel mondo del calcio, ha mandato su tutte le furie l’allenatore Paco Jémez. Inutile dire che Chengdong non ha giocato quasi mai e a gennaio è tornato mestamente in Cina, anche se col vanto di essere stato il primo cinese nella storia della Liga.

    Raúl Martín Presa, faccia da presidente che ha stretto un accordo con una multinazionale cinese. Zhang Chengdong, faccia da calciatore soprannominato Dudù. Felipe Miñambres, faccia da ds a cui è stato imposto di comprare un giocatore cinese.

    Può esistere un Rayo americano?  

     Il Rayo Vallecano è al momento una squadra di Segunda Divisiòn spagnola con uno sponsor cinese e una filiale negli Stati Uniti. Nonostante il supposto appeal internazionale, a Vallecas la situazione è destinata a rimanere pressoché uguale: lo stadio seguirà nella sua fatiscenza, il direttore sportivo continuerà a fare mercato prendendo gli scarti di altre società, la cantera e la squadra femminile dovranno ancora cavarsela con pochi spicci, il club continuerà a non avere una pagina Facebook, lo store annesso allo stadio non venderà altro che merce dalla qualità discutibile a prezzi alti.

    E se questo, da un lato, è uno svantaggio, dall’altro il Rayo continuerà ad essere il Rayo anche per la congenita riluttanza del suo ambiente ai mali del calcio moderno. Certo, l’ideale sarebbe distinguere: una società calcistica moderna per una tifoseria d’altri tempi. Sul significato di “società calcistica moderna” potremmo dibattere per ore, ma a Martín Presa basterebbe ascoltare quello che la vox populi vallecana reclama ogni giorno. Perché, come hanno scritto i Bukaneros nel comunicato, difficilmente una squadra negli Stati Uniti attrarrà nuovi bambini e bambine del quartiere al Campo de Fútbol de Vallecas.

    Il Rayo Oklahoma City, per una stagione, è esistito davvero.

    Il titolo di questo paragrafo era una domanda, ma la risposta è ben chiara: non può esistere un surrogato del Rayo Vallecano negli Stati Uniti. O meglio, può esistere certamente una squadra fake costruita copiando tutti gli aspetti esteriori del club di riferimento: maglia nome colori e stemma, come dicevamo. Ciò che non potrà mai accadere è che una squadra costruita artificialmente comunichi gli stessi valori di cui il Rayo è fucina a Madrid. Figuriamoci se questa squadra, che non sarebbe la stessa nemmeno se spostata in un altro quartiere di Madrid, possa conservare la sua identità dall’altra parte dell’oceano. Profanando Neruda: potranno piantare tutti i fiori ma non potranno ricreare la primavera.       

    Pubblicato su Crampi Sportivi nel 2015

    * * *