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Categoria: Tifosi

  • “Voglio solo star con te”, la canzone country che ha invaso gli stadi britannici

    La straordinaria rimonta della Roma a Londra è andata in scena sulle note di una canzone che parla di un “cuore spaccato e dolorante”. L’hanno cantata prima, durante e dopo la partita tremila cuori festanti ed entusiasti. Un controsenso? Forse. Perché il coro che ultimamente va per la maggiore in Sud (ma è nato in Nord) è tutto meno che triste: “Roma alè, forza Roma alè, voglio solo star con te, voglio vincere e cantar per te, forza forza Roma alè”.

    Diversamente da quanto riportato da alcuni video su YouTube, la canzone originale non è mai stata cantata da Elvis Presley.

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  • Perché il calcio italiano ha bisogno delle “Safe-Standing Areas”

    Tolte le barriere al centro delle curve, Roma guarda all’Europa per diventare una città più a misura di tifoso. Nei giorni scorsi il presidente della Commissione Sport del Comune, Angelo Diario, ha dichiarato che si sta lavorando affinché nelle curve dell’Olimpico si realizzino delle aree pensate per chi vuole assistere in piedi alla partita (cosa che avviene da sempre, ma calpestando i seggiolini). All’estero si chiamano safe-standing areas e sono la versione moderna delle gradinate di una volta. In Germania sono in quasi tutti gli stadi, così come altrove in Europa, e stanno tornando anche nel Regno Unito.

    IL DECRETO CHE VIETA I POSTI IN PIEDI

    Purtroppo, al di là dei buoni propositi di amministrazioni locali e club calcistici, l’ostacolo sembrerebbe essere a monte. C’è infatti un decreto del Ministero dell’Interno (Art. 6, D.M. 18/3/1996) che tra le altre cose regolamenta i posti in piedi negli stadi italiani: gli impianti calcistici non sono contemplati tra quelli che possono avere standing areas.

    Lo stesso Diario è cosciente del problema e vorrebbe risolverlo: «L’amministrazione non può scavalcare il decreto ministeriale. A metà maggio la Commissione Sport da me presieduta, come ha fatto per le barriere, metterà attorno a un tavolo i soggetti interessati: CONI, FIGC, Comune, commissione parlamentare Sport e Cultura e, auspicabilmente, anche club e rappresentanti dei tifosi. Inoltre, in vista dell’appuntamento il CONI sta preparando un approfondimento normativo per capire se basta una modifica o va riscritto l’intero decreto».

    I TRE TIPI DI STANDING AREA

    Quando si parla di settori per stare in piedi, va considerato che la UEFA impone che nelle competizioni europee gli impianti abbiano solo posti a sedere. Quindi le standing areas devono potersi facilmente trasformare in settori con seggiolini, e viceversa. A seconda del modo in avviene questa sorta di metamorfosi, se ne possono distinguere tre tipi.

    1) Rail seats

    Sono i seggiolini adottati dal Celtic FC per la sua nuova standing area. Sono pieghevoli (come le sedie del cinema) e prevedono una ringhiera per fila, o al massimo una ogni due. Ogni seggiolino è dotato di una serratura che lo blocca in posizione chiusa: prima delle competizioni UEFA, il personale dello stadio provvede a sbloccare tutti i posti a sedere.

    2) Bolt-on seats

    Non tutti sanno che una delle curve più famose d’Europa, la Südtribüne del Borussia Dortmund, è un’enorme standing area da quasi 25 mila posti in piedi. La parte alta presenta seggiolini di tipo rail, mentre nella parte bassa sono di tipo bolt-on. I posti a sedere di questo tipo sono del tutto smontabili e vengono portati via dopo le partite europee, lasciando spazio alla più classica delle terraces a gradoni.

    3) Fold-away seats

    Compongono la standing area che ospita i tifosi del Bayern Monaco all’Allianz Arena. I posti a sedere si piegano interamente verso il basso e vanno a finire sotto ai piedi del tifoso, trasformandosi in una pedana calpestabile. Questo tipo di seggiolini dà luogo a una vera e propria gradinata, con ringhiere intervallate che possono essere più o meno fitte.

    Se da un lato i bolt-on seats, quelli removibili, rappresentano una soluzione un po’ antiquata e costringono ogni volta a smontare manualmente migliaia di seggiolini, dall’altro i rail seats comportano l’installazione di una ringhiera per fila e limitano molto la libertà di movimento, cosa che in tempi di lotta alle barriere può sembrare un po’ paradossale. I fold-away seats, almeno nell’opinione di chi scrive, sono quelli che più si adatterebbero alle curve italiane, perché una volta chiusi lasciano spazio a una gradinata vecchio stampo e molto aperta, garantendo al contempo la sicurezza di chi la frequenta.

    La TV dei tifosi dell’Everton ha visitato la safe-standing area del Borussia Dortmund

    PERCHÉ CE N’È BISOGNO?

    Veniamo al punto centrale della questione. Se da un lato le istituzioni sembrerebbero intenzionate ad avviare un dibattito pubblico sulle standing areas, lo stesso non si può per ciò che hanno espresso fino ad oggi le tifoserie. Tra i tifosi italiani è tacitamente diffuso un ragionamento molto logico: se nelle curve già si sta in piedi, perché mai dovremmo volere una standing area?

    Ci sono però almeno quattro motivi per iniziare quantomeno a parlarne.

    1) Aumenta la sicurezza.

    Chi, esultando al goal della propria squadra, si è fatto quattro file per poi atterrare di stinco sullo schienale di un seggiolino, può capire. Questa è la vera safety, non quella delle barriere al centro delle curve.

    2) Sono una garanzia per il futuro.

    Vi ricordate tamburi e megafoni? Nulla toglie che un giorno qualcuno vieti anche l’innocua prassi di guardare la partita in piedi. Chiedetelo ai tifosi del West Ham alle prese col nuovo stadio.

    3) Aumenta la capienza degli impianti.

    Basta un esempio: in Champions lo stadio del Borussia Dortmund ospita circa 66 mila tifosi. Per la Bundesliga, quando i posti a sedere in curva vengono smontati, la capienza raggiunge le 81 mila unità. Se aumenta la capienza delle curve, aumenta pure lo spettacolo sugli spalti, e la tv potrebbe addirittura ricominciare a inquadrarli.

    4) Si abbassano i prezzi.

    Sveliamo uno dei segreti del tanto decantato modello tedesco: allo stadio l’offerta è diversificata a seconda dei diversi target di tifoso. A Monaco un biglietto in curva per la Bundesliga costa 16 euro, l’abbonamento 140. I settori popolari sono davvero popolari e vengono compensati dalla capienza maggiore e dai servizi “vip” in tribuna. Così si riempiono gli stadi. È il marketing, bellezza!

    CONCLUSIONI

    L’auspicato percorso di rinascita del calcio italiano dovrebbe passare anche dalle standing areas, perché la vivibilità e la fruibilità degli stadi sono ai minimi storici e l’Olimpico di Roma ne è un esempio. È d’accordo Lorenzo Contucci, avvocato da sempre attento alle questioni relative al mondo del tifo: «Trovo paradossale che in Italia chi vuole stare in piedi sia costretto a farlo su posti pensati per far stare le persone sedute. Per tornare a riempire gli stadi bisogna diversificare i settori a seconda del tipo di tifoso: le standing areas sarebbero un passo avanti in questa direzione».

    Forse per la prima volta in Italia il dibattito pubblico in favore di un tema che dovrebbe essere caro ai tifosi viene innescato dalle istituzioni. E non è detto che sia una cosa negativa, anzi, magari accadesse più spesso. Ciò che manca, però, è la voce dei tifosi di tutta Italia, anche perché – nonostante la scelta illuminata di rimuovere le barriere a Roma – non è affatto detto che al Ministero dell’Interno piaccia l’idea di cambiare le norme sui posti in piedi. Le standing areas sarebbero una garanzia contro la barriera più pericolosa, cioè quella economica. L’aumento dei prezzi dello stadio è purtroppo già una realtà, ma con il lento migliorare degli impianti il fantasma del caro-biglietti si farà sempre più incombente.

    In copertina: “Looking up” di Stuart Roy Clarke
    (Tifosi del Sunderland nel 1996 a Roker Park)

    Pubblicato su Gioco Pulito il 4 aprile 2017

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  • MLS: i tifosi di Vancouver interrompono le trasferte negli USA in protesta contro Muslim Ban

    La tifoseria organizzata della squadra canadese Vancouver Whitecaps ha annullato la tradizionale trasferta a Portland, negli Stati Uniti, per tre partite amichevoli di pre-campionato. La scelta è dovuta alla recente pubblicazione dei divieti rinominati Muslim Ban, che vietano per tre mesi l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana. Il direttivo dei Southsiders, principale gruppo di tifosi della squadra canadese, ha dichiarato che alcuni dei circa 700 iscritti al gruppo sono direttamente colpiti dalle nuove misure volute da Donald Trump e non possono dunque accedere al suolo statunitense.

    I Southsiders non hanno ancora rilasciato comunicati ufficiali dopo che domenica 5 febbraio il giudice dello stato di Washington ha per ora sospeso il divieto di accesso a chi proviene dai sette paesi in lista. Il Dipartimento di Giustizia del governo statunitense ha presentato ricorso urgente, bocciato dalla Corte di Appello, che ha chiesto alle due parti di presentare più elementi. Nella notte italiana tra lunedì e martedì potrebbero esserci sviluppi, ma la vicenda rischia di protrarsi per molto tempo e arrivare alla Corte Suprema. Per ora, il divieto di accesso ai cittadini dei sette paesi musulmani non è attivo, ma non è detto che non vi siano ulteriori ribaltamenti di fronte prima delle partite, previste per 9, 12 e 15 febbraio.

    «Non possiamo renderci responsabili di organizzare eventi che potenzialmente escludono alcuni dei nostri membri, al di là di quale sia il numero degli iscritti colpiti dai divieti – hanno comunicato i tifosi con una nota diffusa il 31 gennaioIl nostro gruppo si fonda sui principi di inclusività, accoglienza e rispetto per chiunque abbia deciso di stare assieme a noi. Sin dai primi giorni abbiamo lottato a favore dell’uguaglianza e contro razzismo e intolleranza».

    «Non chiediamo ai nostri membri di boicottare la trasferta, ognuno farà la sua scelta – continua il comunicato – la nostra unica richiesta per chi andrà è quella di lasciare la sciarpa dei Southsiders a casa, come segno di rispetto per i membri che non possono attraversare il confine con la stessa facilità e libertà personale».

    Da quando sono entrati a far parte della Major League Soccer nel 2011, i Vancouver Whitecaps hanno sempre portato un gran numero di tifosi a Portland e Seattle. Le tre città vivono infatti una particolare tripla rivalità, che si esplica soprattutto nella Cascadia Cup: una competizione parallela alla MLS nella quale si calcolano solo i punti delle partite di regular season giocate tra le tre squadre del North-West.

    I Southsiders, fondati nel 1999, sono conosciuti per essere tra i gruppi più calorosi e rumorosi della MLS. Celebri per le loro “sciarpate”, si fanno riconoscere anche per il colorato corteo che da un pub si reca allo stadio prima di ogni partita. «Cerchiamo di tenere fuori i temi politici – ha dichiarato alla stampa il presidente del gruppo Peter Czimmermannma siamo quasi una famiglia e non organizzeremo un viaggio in cui qualcuno di noi resta escluso».

    Anche e se i divieti dovessero rimanere bloccati, è probabile che il gruppo non organizzi la trasferta per via del poco tempo a disposizione. Intanto la regular season si avvicina: l’edizione 2017 della Major League Soccer comincerà il 3 marzo e non è ancora chiaro se le restrizioni volute da Trump saranno attive fra un mese. Quel che è certo, però, è che dal Canada i Southsiders non si muoveranno senza la certezza di non dover lasciare a casa nessuno.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 6 febbraio 2017

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  • Alla scoperta dei “Sons of Ben”, i tifosi del Philadelphia Union nati prima della loro squadra

    I figli di Benjamn Franklin. Così si fanno chiamare i membri della tifoseria organizzata del Philadelphia Union, gruppo fondato nel gennaio 2007 che in questi giorni festeggia la prima decade di attività. I Sons of Ben anno una particolarità: sono nati due anni prima che la loro squadra facesse il suo debutto ufficiale.

    È un caso strano, possibile solo in un paese in cui il pallone non è mai andato di moda e in cui molte città sono abituate a non vedersi rappresentate nel calcio che conta. «Se non fosse stato per i Sons of Ben, il Philadelphia Union non esisterebbe». A dirlo è Tim Sosar, vice-presidente del gruppo ispirato a uno dei padri della patria statunitense, che mi racconta la loro storia: «Siamo nati nel 2007 con lo scopo di dimostrare alla MLS che nell’area metropolitana di Philadelphia c’era voglia di calcio, ma soprattutto il desiderio di una squadra che ci rappresentasse».

    Detto fatto: gli iscritti ai Sons of Ben sono divenuti migliaia, facendo drizzare le antenne dei vertici della MLS e degli investitori. Certo, chiedere che venga fondato un club è un qualcosa a cui in Europa non siamo molto abituati. Quando qualcuno ha avvertito la necessità di creare (o ri-creare) una squadra di calcio, si è dato da fare per farlo con le proprie mani. Numerose squadre fondate e gestite dai tifosi, United of Manchester e AFC Wimbledon per citare le più famose, rappresentano ormai un modello per qualsiasi gruppo che lamentasse la mancanza di un club di calcio.

    Ma nella terra del dollaro si ragiona diversamente e il primo passo è stato quello di dimostrare che c’era un nutrito gruppo di persone pronte a giurare fedeltà a un nuovo club. Insomma, far vedere che c’era la domanda e mancava totalmente l’offerta, servendo su un piatto d’argento un’importante occasione di business a chi fosse stato pronto ad investirci. E così è stato.

    A partire dal nome del gruppo dei suoi proto-tifosi, il Philadelphia Union si è caratterizzato per un’identità che travalica i confini della città in cui furono redatte la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione americana. «Come i Philadelphia 76ers – spiega Tim – l’Union ha puntato molto sulla storia della città e sul suo ruolo nel processo di formazione degli Stati Uniti».

    Il nome del club, scelto dai tifosi con una votazione, è un esplicito richiamo all’unione delle Tredici Colonie, così come i colori sono quelli dell’Esercito Continentale, che si oppose a quello inglese durante la Rivoluzione americana.

    Oltre a tredici stelle, nello stemma appare un serpente. È un riferimento a una delle più celebri caricature politiche di Benjamin Franklin, uscita con un suo editoriale sulla Pennsylvania Gazette nel 1754. Franklin esortava le colonie ad un maggiore spirito di unione: nella caricatura la scritta «JOIN, or DIE» era accompagnata da un serpente morto tagliato in tredici pezzi. La stessa frase è stata poi resa il motto ufficiale del Philadelphia Union: «Jungite aut Perite».

    I Sons of Ben occupano un settore dello stadio interamente dedicato a loro, chiamato The River End. Oltre ad aver scelto il nome, hanno contribuito a progettarlo, esortando la dirigenza ad allestire una standing area e postazioni apposite per chi lancia i cori, dove è permesso accendere fumogeni senza incorrere in sanzioni. Chiedo a Tim se la crescita della MLS sta andando di pari passo con l’allontanamento dei tifosi che praticano uno stile ultras di derivazione europea, ad esempio facendo uso di materiale pirotecnico e usando un linguaggio offensivo nei cori: «Ci sono regole come il divieto di usare torce che apparentemente dovrebbero scoraggiare gli “ultras”, il cui comportamento a volte può creare problemi. Ma credo anche che le autorità capiscano che c’è spazio per un po’ di questi comportamenti e provino a cercare dei compromessi. Ad esempio il club ha collaborato con noi e i vigili del fuoco per farci ottenere il permesso di usare fumogeni. Penso che la maggioranza dei tifosi rispettino le regole del club finché le regole stesse e la filosofia che vi è dietro sono trasparenti. Inoltre, rispetto a ciò che ho visto in altri paesi, credo che i tifosi americani siano un po’ più rispettosi verso i giocatori e i tifosi avversari».

    Mi dice Tim che il calcio non è nemmeno vicino a superare il football americano in quanto a interesse, ma arriverà il giorno in cui sarà uno degli sport più seguiti negli Stati Uniti. Come sport praticato, invece, la storia è diversa: molti genitori iniziano a preferire che i figli giochino a soccer piuttosto che a football, a causa della crescente preoccupazione riguardo le commozioni cerebrali provocate da quest’ultimo. «Quando ero bambino nella mia zona non c’era interesse verso il calcio – continua Tim – ma ora sì e non accenna a diminuire. Questo è un segno innegabile che i due sport sono quantomeno destinati a coesistere».

    Ma le differenze tra America ed Europa sono ancora grandi, dettate anche da fattori culturali: «Credo che i nordamericani non abbiano ancora compreso quanto il calcio sia una scelta di vita per gli europei, siano essi tifosi o giovani calciatori. Qui in America incoraggiamo i bambini a diversificare gli interessi, di conseguenza il coinvolgimento viene spartito in più attività. Questo potrebbe cambiare con le nuove generazioni che cresceranno con un club di MLS in città e una nazionale femminile di livello mondiale, ma siamo ancora agli inizi. Non è necessariamente una cosa negativa, è solo una fase che il calcio dovrà attraversare crescendo».

    Pubblicato su Gioco Pulito il 2 febbraio 2017

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  • Allo stadio negli States: a tu per tu con i Dallas Beer Guardians

    Incuriosito dal mondo dei tifosi di calcio nordamericani, ho deciso di contattare alcuni gruppi organizzati, per tentare di conoscere similitudini e differenze rispetto all’universo dei tifosi europei. I primi a rispondermi sono i Dallas Beer Guardians, un gruppo di supporters del Dallas FC che dal 2011 cantano e tifano seguendo un motto latino da loro coniato: Sanguinem, sudorem et cervisae. Sangue, sudore e birra, che segnala l’impegno profuso dai membri del gruppo per sostenere la squadra con cori e bandiere, ma anche la loro dedizione al luppolo. Ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con la loro presidente Bailey Brown. Proprio così: il gruppo ha un presidente ed è donna.

    Bailey mi descrive uno scenario molto diverso da quello europeo: «Negli Stati Uniti la maggior parte dei gruppi di tifosi sono delle organizzazioni no-profit registrate ufficialmente, che rispondono alle leggi locali ed eleggono i propri rappresentanti». In Italia abbiamo i cosiddetti club di tifosi, che sono spesso registrati come associazioni senza scopo di lucro e siedono in tribuna, ma raramente sostengono attivamente la squadra tifando, cantando e sventolando bandiere. I gruppi statunitensi sono invece la parte più calda della tifoseria. Ma più che un gruppo di tifosi, Bailey Brown definisce i Dallas Beer Guardians una famiglia. Anzi, una beer family.

    Come prima presidente donna del gruppo, sa di rappresentare il calcio americano che cambia, e con esso il suo bacino di tifosi: «Nei DBG le donne hanno gli stessi ruoli che gli uomini. Anzi, a volte è capitato che i tre lancia-cori fossero tutte ragazze. Sugli spalti del Toyota Stadium gli episodi di discriminazione sessista sono rari e sento che se avvenissero la gente non starebbe lì a guardare, perché siamo una comunità molto inclusiva e ci impegniamo perché sia così. A volte si avverte un sessismo sottile, quando ad esempio ti chiedono: “Sei venuta allo stadio col tuo ragazzo?”, ma credo che stia diminuendo. Noi donne in MLS siamo ancora una minoranza, è vero, ma sogno che un giorno la metà dei membri del nostro gruppo sia di sesso femminile».

    Mi spiega che quella da lei presieduta è un’organizzazione indipendente dal club e totalmente autofinanziata. Questo non significa che non ci sia collaborazione con la società: «Ci dobbiamo recare da loro per farci approvare striscioni e coreografie, organizzare cori con tutto lo stadio e chiedere il permesso di entrare in campo dopo la partita». Ma è anche il club a dover chiedere il permesso ai tifosi, ad esempio quando vogliono esporre il Supporters Shield in qualche evento: «Il Supporters Shield è un trofeo assegnato alla squadra che arriva prima a fine campionato, cioè prima dei play-off che ne decretano il vincitore. L’anno scorso il Dallas FC è arrivato primo, ma è poi uscito ai play-off contro i Seattle Sounders. Il premio è intitolato e assegnato fisicamente ai tifosi come segno di riconoscimento per il loro impegno. Al momento è a casa mia».

    I Dallas Beer Guardians si recano nei dintorni dello stadio tre-quattro ore prima del fischio d’inizio e danno vita al tailgate party: la particolare usanza nordamericana di animare i parcheggi degli stadi con grigliate, bevande alcoliche e musica, utilizzando come epicentro il bagagliaio – tailgate, appunto – di uno o più veicoli. «Nel prepartita l’allenatore e il direttore tecnico passano al parcheggio per fare due chiacchiere con noi e ricordarci quanto apprezzano il nostro sostegno», racconta Bailey. «Una volta entrati dentro stiamo in piedi, cantiamo e sventoliamo le bandiere per 90 minuti. Poi torniamo alla zona del tailgate per il post-partita».

    Le chiedo se ha riscontrato dei problemi diffusi in tutti gli Stati Uniti riguardanti il tifo, per i quali tifosi di MLS si possano attivare tutti insieme. Mi risponde che, secondo lei, le istanze sono più locali che nazionali: «Le leggi locali sono differenti, così come prezzi e regolamenti degli stadi, e ogni club ha il suo front-office che può essere più o meno collaborativo. Tuttavia ogni anno ci riuniamo con molte altre tifoserie nell’Independent Supporters Council, un organismo di coordinamento molto utile anche quando bisogna affrontare i problemi collettivamente».

    Sul loro sito ho letto che una coreografia da loro realizzata è detenuta dalla polizia. Le chiedo spiegazioni, aspettandomi di ascoltare storie già sentite: sequestrata perché non rispettava gli standard di sicurezza, perché non autorizzata o perché lanciava un messaggio non gradito. E invece mi coglie di sorpresa: «Il 7 luglio scorso a Dallas una persona ha ucciso cinque poliziotti che stavano facendo i volontari per proteggere dei manifestanti. La tragedia ci ha riguardato da vicino perché uno di loro era anche un collega di uno dei nostri membri. Abbiamo allora dipinto un grande stendardo in loro onore e dopo averlo esposto lo abbiamo regalato alla polizia di Dallas».

    Infine, le chiedo cosa possono imparare le tifoserie europee da quelle nordamericane, e viceversa: «Noi facciamo nostri cori e i modi di fare le coreografie. Ci ispiriamo sempre ai tifosi di ogni parte del mondo, adattando sempre il tutto alla nostra cultura. Ho difficoltà a dire cosa potrebbero imparare loro da noi, perché non so come si organizzano i gruppi in Europa. Una cosa che amo delle tifoserie americane è il grande impegno sociale in numerosi campi. Noi ad esempio organizziamo spesso raccolte di materiale tecnico per bambini in difficoltà, lavoriamo nei centri sociali, diamo una mano alle fattorie urbane… Fare attività benefiche fuori dallo stadio rende davvero i gruppi delle famiglie, delle comunità in cui ognuno dipende dall’altro».

    Pubblicato su Gioco Pulito il 26 gennaio 2017

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  • Il “po po po” da Bruges a Sanremo: genesi di un canto nazionalpopolare

    In principio furono i belgi. Anzi, gli stabiesi. No, i perugini. La disputa su chi abbia avuto per primo l’idea di adattare “Seven nation army” dei White Stripes a coro da stadio non si è mai chiusa e in fondo nulla vieta che diverse tifoserie lo abbiano fatto indipendentemente. Ma la colonna sonora del Mondiale 2006 ha una derivazione ben precisa: nasce a Milano da un gruppo di tifosi del Bruges e passando per Roma arriva in tutta Italia.

    La leggenda vuole che prima di un Milan-Club Brugge del 2003 alcuni belgi in trasferta ascoltarono l’ipnotizzante riff di Jack White in un bar milanese e lo fecero proprio. Dentro lo stadio il motivo fu riproposto e, complice l’inaspettata vittoria del Brugge, l’importazione in patria del nuovo coro fu facile. Quei tifosi non sapevano di aver inventato il nuovo inno del calcio mondiale. I milanisti a San Siro non immaginavano che tre anni dopo avrebbero cantato quella canzone per tutta l’estate.

    A riportare il coro in Italia fu Simone Perrotta. In realtà furono i tifosi che seguirono la Roma a Bruges ai sedicesimi di Coppa UEFA 2006, ma senza il goal vittoria dell’anglo-calabrese non avrebbero mai potuto sbeffeggiare i belgi copiandogli la canzone. Era il 15 febbraio del 2006 e la Roma spallettiana era giunta alla nona delle undici vittorie che segnarono quella stagione. Complice anche in questo caso la vittoria in trasferta, nonché il grandioso momento che stava attraversando la Roma, il coro-loop ebbe rapida fortuna nell’ambiente giallorosso, sconfinando presto dalla Curva Sud per divenire patrimonio comune del romanismo.

    Il canto dei romanisti a Bruges

    Ogni volta che sento il Po po po avverto una punta di irriverenza verso gli sconfitti: non so se sia insita nel motivetto o sia dovuta alla circostanza che ne vide la diffusione a Roma. Sta di fatto che sulle sponde del Tevere le note dei White Stripes trovarono presto un verso ottonario pronto a corredarle e completarle: bian-co-az-zur-ro-bas-tar-do. Con tutti gli sfottò, le lamentele, le note sul registro, le chat di MSN e gli scherzi in radio del caso.

    Veniamo alla ribalta nazionale. Questa fu raggiunta dal neonato coro il 28 febbraio del 2006 a Sanremo. Quale contesto migliore del Festival della Canzone Italiana? Insulso, sciovinista, ripetitivo, melenso, superficiale, demagogico, dozzinale. Eppure generalmente riconosciuto e seguito, proprio come quel ripetitivo coro. Fu dalle prime file del Teatro Ariston che Francesco Totti si esibì in una ridicola quanto celebre storpiatura del canto da stadio e sancì la sua metamorfosi definitiva in cantilena nazionalpopolare.

    Ora riguardalo facendo caso solo alla faccia di Ilary.

    A maggio Totti replicò la performance in radio da Fiorello, arricchendola però con la frase sui laziali. Seguirono fiumi di scuse, ma il dado era tratto: il Po po po era un affare nazionale. Da lì a Italia-Ghana il passo fu breve: dallo stadio di Hannover si alzò il coro che accompagnò gli Azzurri fino alla vittoria. “A seven nation army couldn’t hold me back” fu presa come un’esatta profezia: sette nazionali sono quelle che batte chi vince il mondiale.

    Cosa era scattato tra maggio e giugno è difficile dirlo: probabilmente alla diffusione del coro avevano contribuito anche i numerosi remix che circolarono per le discoteche di tutta Italia. Ancor più massiva fu la sua diffusione post-Mondiale: un esercito di adolescenti invase le mete turistiche italiane ed europee cantando il Po po po. E così, fra un falò in spiaggia e una serata house, per un anno parecchi italiani si sentirono invincibili.

    Oggi è difficile trovare una nazione occidentale o uno sport di squadra in cui non si sia cantato il Po po po. Lo hanno cantato i bavaresi dopo aver vinto la Champions contro il Borussia, lo hanno diffuso gli altoparlanti di tutti gli Europei dal 2008 a oggi, lo cantano gli inglesi (ma lì è Duh duh duh), lo cantano a Madrid, lo cantano in Australia. Lo cantano i tifosi dei Baltimore Ravens in NFL e quelli dei Miami Heat in NBA. Lo cantano di nuovo gli italiani a Brasile 2014, stimolando una celebre uscita alla Titti e il gatto Silvestro di Caressa.

    Viste le premesse, per fortuna quel Mondiale lo abbiamo perso.

    Insomma, sono passati dieci anni dalla sua consacrazione e il Po po po è passato da coro di curva a inno nazionale, per poi essere universalmente riconosciuto come canto di vittoria nello sport. Mentre scrivevo questo pezzo, Griezmann ha segnato i due goal che portano la Francia in finale di Euro 2016: dal Velodrome si è alzato per due volte il Po po po…

    Certo che però bisogna volersi proprio male.

    Pubblicato su Crampi Sportivi il 9 luglio 2016

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  • Boca Juniors: i tifosi contro il progetto di abbattimento della Bombonera

    Forse è il più bello stadio del mondo: per il calore e l’energia che riesce a trasmettere, per la sua carica simbolica ed i significati che racchiude. Quelli di un calcio vissuto come festa popolare, chiassoso, colorato, latino. Per alcuni, però, è solo un vecchio impianto fatiscente che merita di essere consegnato alla memoria. La Bombonera, sovraffollata ad ogni partita, condannata dalla densità del suo quartiere a non potersi espandere oltre il proprio perimetro, sembrerebbe refrattaria a qualsiasi restyling sulla falsa riga dei grandi impianti europei. Ma soprattutto non sembra poter garantire tanti profitti quanti ne porterebbe la costruzione di un nuovo stadio per il Boca Juniors.

    Il promotore del progetto è Daniel Angelici, divenuto a dicembre nuovo presidente del club a seguito delle elezioni in cui il popolo xeneize, come da statuto, è stato chiamato a scegliere la propria guida. Angelici è un uomo di fiducia di Mauricio Macri, attuale presidente dell’Argentina e presidente del Boca dal 1996 al 2007. Per molti, è ancora quest’ultimo a tirare i fili del club più titolato del Sudamerica.

    Angelici aveva presentato l’idea nel proprio programma e ora, forte del risultato elettorale, si sente legittimato a sciogliere un legame che dura da più di 75 anni. Il suo progetto prevede di costruire a pochi isolati di distanza dalla Bombonera un moderno impianto da 80 mila posti, con ristoranti, negozi e servizi di ogni tipo, sponsorizzato da una grande impresa. Un’idea che ha fatto rabbrividire buona parte del tifo e che è valsa al nuovo impianto l’eloquente soprannome di estadio-shopping, stadio-centro commerciale.

    Alle elezioni per la presidenza del club, pur risultando come vincitore, Angelici ha ottenuto solo il 43%. Poiché il programma degli altri due candidati prevedeva di continuare ad usare lo stadio di sempre, sono in molti ora quelli che criticano la risolutezza di Angelici nel dare l’addio allo stadio più famoso d’Argentina. D’altronde, è difficile ipotizzare che la maggioranza dei soci sia favorevole ad una proposta di questo tipo.

    Ameal e Beraldi, gli altri due candidati, prevedevano invece un piano di restauro e ammodernamento dello storico impianto. In particolare, il primo, con lo scopo di aumentarne la capienza, aveva proposto di rinunciare alla famosa struttura “a forma di D” dello stadio. Si sarebbe così abbattuta la struttura verticale, che ospita solo dei balconcini, per costruire un’ampia tribuna speculare all’altra.

    Il presidente macrista, però, procede sulla sua strada, sicuro di trovare una sponda anche presso istituzioni locali e nazionali. Le ragioni con le quali sta motivando il progetto sono molte, ma tre sono quelle più citate. In primis, il nuovo stadio sarebbe la soluzione al problema – riconosciuto da tutti – del sovraffollamento della Bombonera. Una soluzione che faciliterebbe l’accesso anche ai turisti e ai cosiddetti tifosi occasionali. Inoltre, Angelici dichiara di sottostare a delle indicazioni pubblicate dalla FIFA nel 2011, che raccomandano ai club di far sedere tutti gli spettatori allo stadio.

    Infine, il presidente ha più volte richiamato una legge locale in cui si stabilisce che gli stadi della città di Buenos Aires debbano avere seggiolini per il 75% della propria capacità. Una modifica che ridurrebbe ulteriormente l’attuale capacità della Bombonera. Ma gli oppositori del progetto sostengono che il provvedimento sia sempre stato ignorato da tutti perché inapplicabile, tant’è che la data entro cui i club avrebbero dovuto adattarsi è stata posticipata già due volte.

    Tale legge fu proposta nel 2008 all’organo legislativo di Buenos Aires da Oscar Moscariello, al tempo capogruppo del partito di Macri presso la Legislatura della capitale e in seguito vicepresidente del Boca. Un percorso che induce molti a pensare che i rappresentanti del partito al governo, in realtà, si siano prima preparati il campo con una legge inapplicabile per questioni di spazio nell’attuale Bombonera, per poi utilizzarla come uno dei motivi in favore del nuovo stadio.

    Per molti tifosi del Boca, tra cui l’organizzazione Boca es Pueblo, il progetto rappresenterebbe essenzialmente un modo per alimentare i rapporti tra il partito di Macri e le imprese di costruzioni ad esso vicine, nonché un espediente per allontanare la parte più calda e popolare del tifo con prezzi più alti e modalità di accesso più restrittive.

    Il nuovo impianto rappresenterebbe la perdita di identità per tutto il popolo azul y oro, che a stento si riconoscerebbe in uno stadio pieno di turisti, negozi e ristoranti. E, se è vero che la tifoseria del Boca è il jugador número doce, anche le prestazioni della squadra risentirebbero di un ambiente più freddo e composto.

    Il nuovo stadio, inoltre, rappresenterebbe un’enorme fonte d’indebitamento per il club. Non a caso, Angelici si è già detto disponibile a vendere i naming rights a qualche multinazionale. Una soluzione che ha fatto inorridire gli amanti della Bombonera, chiamata così dal giorno della sua inaugurazione per essere stata paragonata dal suo architetto ad una scatola di cioccolatini.

    I tifosi del Boca di certo non stanno a guardare e già si stanno dando da fare per contrastare il pensionamento del loro amato stadio, che nei piani di Angelici andrebbe coperto per ospitare eventi di intrattenimento e altri sport. A fronte del dissenso esternato in numerose manifestazioni in tutta la nazione, Angelici ha dichiarato che la questione sarà sottoposta ad un referendum tra i soci. Se ad alcuni è sembrato un passo indietro, o quantomeno un’apertura a soluzioni alternative, sono molti invece quelli che diffidano da questa dichiarazione: una consultazione di questo tipo non è prevista dallo statuto del Boca e le regole sarebbero scritte dalla dirigenza.

    Referendum o no, Angelici ha già compiuto il primo, grande passo avanti verso la costruzione del nuovo stadio: si è aggiudicato a prezzo stracciato i terreni pubblici della “Casa Amarilla”, a qualche via di distanza dalla Bombonera. Senza ovviamente consultare i soci. Il Boca Juniors è risultato essere l’unico partecipante ad una gara d’appalto “per lo sviluppo e il miglioramento di Casa Amarilla”, con un progetto che affianca allo stadio alcuni servizi per i residenti, come una biblioteca e altri spazi ricreativi. A detta di alcune associazioni di quartiere, che non vogliono un altro stadio là dove erano state previste case popolari, la gara è stata pensata ad hoc: era infatti aperta solo ad organizzazioni di almeno 500 persone, con alle spalle un capitale milionario e con almeno 10 anni di esperienza nel quartiere della Boca. Praticamente, solo il Boca Juniors.

    Al contrario di quanto accade in altre parti del mondo, non saranno dunque gli impedimenti burocratici ed economici a rallentare il progetto di Angelici e Macri. E mentre i cugini del San Lorenzo difendono la propria storia ottenendo la costruzione di un nuovo stadio, quelli del Boca saranno costretti ad opporsi al nuovo impianto per salvare la propria identità. Cammini opposti, ma mossi dagli stessi sentimenti. 

    Forse il popolo xeneize vincerà la difficile battaglia contro i poteri forti del club, della città e della nazione, riuscendo a salvare la Bombonera dal suo pensionamento. Agli amanti del calcio, tuttavia, è consigliato di prevedere a breve un viaggio a Buenos Aires, per non ritrovarsi costretti in futuro a dover comprare i biglietti di un musical solo per vedere quella che un giorno fu la Bombonera.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 9 febbraio 2016

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  • Amedspor, la squadra curda che spaventa Erdogan

    Lo scorso 2 febbraio l’unità anti-terrorismo della polizia turca ha fatto irruzione nella sede dell’Amedspor, sequestrando computer e documenti dagli uffici del club. L’Amedspor è una squadra di terza serie e ha sede a Diyarbakır, capitale del Kurdistan turco sulle sponde del fiume Tigri. Il 31 gennaio, contro ogni previsione, aveva clamorosamente eliminato dalla coppa nazionale il Bursaspor, squadra della massima serie turca, garantendosi un posto ai quarti di finale contro il Fenerbahce primo in campionato.

    La notizia dell’irruzione, diffusa in Italia attraverso i canali social del blog Minuto Settantotto, è stata divulgata in inglese dall’agenzia di stampa turca Cihan e dal sito d’informazione Kurdish Question.  Rispetto ai motivi ufficiali del blitz, però, è necessario procedere con cautela. Stando a quanto riportato da Today’s Zaman, versione in lingua inglese del quotidiano turco Zaman, il vicepresidente del club Nurullah Edemen avrebbe dichiarato che nessun dirigente dell’Amedspor è stato informato sui motivi dell’irruzione, nonostante tutto il direttivo fosse presente in sede.

    Il sito Kurdish Question ha invece sostenuto che la polizia ha proceduto in seguito ad un tweet inneggiante al terrorismo, attribuito dalle forze dell’ordine all’account della stessa società sportiva. Come ha invece chiarito il dirigente Servet Erol, il tweet era stato diffuso da un account che nulla ha a che vedere con quello ufficiale: un errore molto grossolano, che ha indotto la dirigenza dell’Amedspor a credere che quella della polizia sia stata un’operazione intimidatoria, più che di indagine.

    Il tweet in questione, ormai eliminato, dedicava l’incredibile vittoria contro il Bursaspor a chi combatte nelle città di Şırnak e Diyarbakır e a tutto il popolo curdo. Parole in cui riecheggiano i cori da stadio che sono costati caro ai tifosi dell’Amedspor. Infatti i rossoverdi, durante la precedente partita di coppa, giocata a Istanbul contro il Başakşehirspor, avevano intonato canti a favore dei combattenti curdi e contro le stragi di bambini.

    A seguito della partita, ai tifosi era stata vietata la trasferta di Bursa, costringendoli a seguire a distanza lo storico successo della loro squadra. Ma ancora più eclatante è stato l’arresto a Istanbul di decine di tifosi – più di trenta per Kurdish Question, di cento per Today’s Zaman – colpevoli di aver intonato i cori sgraditi.

    Le sanzioni

    Ma le sanzioni a seguito della partita non riguardarono solo i tifosi. Il giocatore Deniz Naki, artefice del secondo goal contro il Bursaspor, fu squalificato per 12 giornate e multato di 19.500 lire turche, colpevole di aver pubblicato sui social un post che recitava: «Siamo fieri di essere un piccolo spiraglio di luce per la nostra gente in difficoltà. Come Amedspor, non ci siamo sottomessi e non ci sottometteremo. Lunga vita alla libertà!». Come riportò Kurdish Daily Newsil giocatore fu accusato di “discriminazione e propaganda politica”. Naki, un passato nel FC Sankt Pauli di Amburgo, porta tatuata sul braccio la parola Azadî, libertà.

    Non fu la prima volta che la squadra rossoverde si rese scomoda al regime di Erdoğan. Nell’ottobre del 2014 il club, che portava il nome turco della città di Diyarbakır, rimediò una multa dalla Federazione turca per aver cambiato nome in Amedspor, utilizzando la denominazione curda della città. Contemporaneamente, un cambio nello stemma permise ai tifosi di sventolare i colori della bandiera del Kurdistan, vietata in Turchia: un espediente non nuovo nel mondo del calcio, che ricorda – con le ovvie e dovute differenze – quando durante il regime di Franco i catalani quasi elessero a nuova bandiera nazionale quella blaugrana, per rimpiazzare la senyera vietata dalla dittatura.

    La Coppa di Turchia 2015-16 è entrata nella storia della questione curda. Una squadra di terza divisione stva incredibilmente scalando la Coppa nazionale, portando la voce dei curdi lì dove meno la si vorrebbe in evidenza. La compagine venne poi eliminata ai quarti dal Fenerbahce ma ancora oggi, ad ogni partita dei rossoverdi, si alza il grido di un popolo che chiede di poter vivere in pace rivendicando la propria identità.

    La partita con il Başakşehirspor a Istanbul fece clamore per i cori, gli arresti, il divieto di trasferta. L’eccezionale qualificazione ai quarti ai danni del Bursaspor fece parlare tutto il paese di questa squadra ribelle, che forse arrivò troppo in alto iniziando a dar fastidio, tanto da essere divenuta oggetto di un’irruzione che ancora oggi sembra poco motivata.

    I tifosi uniti

    La questione unì anche le tifoserie avversarie, che a più riprese negli anni hanno espresso solidarietà nei confronti del popolo curdo. Ci si può fare un’idea leggendo qualche riga del comunicato che decine di gruppi ultras della Turchia, tra cui tifosi di Amedspor e Fenerbahce, diffusero a gennaio 2014 (traduzione di E. Karaman): «Il governo si riempie da sempre la bocca con lo slogan “non dividiamo il paese”, ma poi perseguita e uccide proprio chi vuole che il nostro paese viva in pace e in armonia tacciandoli come traditori. In questo paese c’è soltanto una distinzione: chi, guardando un bambino morto a terra colpito da una pallottola, si domanda se quel bambino fosse curdo o meno e chi invece piange tutti i bambini di tutte le etnie. […] La vergogna più grande dell’umanità è la colpa della guerra, una guerra di cui noi non faremo parte».

    Pubblicato su Gioco Pulito il 5 febbraio 2016

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  • A Torino rinasce il Filadelfia: la nuova casa del Toro sarà un luogo di cultura e aggregazione

    Sul sito della Fondazione Filadelfia c’è una webcam che dall’alto mostra costantemente lo stato dei lavori. Non è solo un segnale di trasparenza. Sta lì a dire: guardate che stavolta lo stiamo facendo davvero. Dagli anni Ottanta ad oggi, dopo innumerevoli tentativi di ricostruzione (su Wikipedia se ne elencano almeno sette), questa è veramente la volta buona: il Fila non sarà più solo un simbolo della storia granata.

    A Via Filadelfia tornerà a sorgere la casa del Torino FC, che sarà, innanzitutto, un centro sportivo dotato di due campi di calcio. Uno per gli allenamenti della prima squadra e uno per le partite della Primavera. Quest’ultimo disporrà di una tribuna coperta e di tribune minori sui tre restanti lati, per una capienza totale di oltre 4.000 posti. Sotto la tribuna gli uffici del Club, la sede della Fondazione, la foresteria per le giovanili, parcheggi, sala stampa ed altre aree da destinare.

    Ma non sarà solo un centro sportivo all’avanguardia. La tradizione vuole, infatti, che il Filadelfia sia il luogo d’incontro tra club e tifosi. E allora quella sportiva sarà solo una parte del moderno polo multifunzionale, che presenterà notevoli spazi dedicati alla cultura e all’aggregazione. Sarà un luogo in cui si respirerà la forte volontà del mondo granata di sanare il proprio debito con la Storia, rendendo finalmente un tributo perpetuo ai caduti di Superga e curando una ferita da troppi decenni aperta nel tessuto urbano della città. Nel progetto, i richiami al passato sono un po’ ovunque: dai luminosi Piloni della Memoria, che porteranno i nomi dei giocatori del Grande Torino, a due porzioni originali di gradinata salvate dalla demolizione, fino al Museo del Grande Torino, che troverà finalmente la sua sede fissa nell’area socio-aggregativa prevista dal progetto.

    Cesare Salvadori è il Presidente della Fondazione Stadio Filadelfia, nonché ex schermidore, vincitore di un oro e due argenti nella sciabola a squadre ai giochi olimpici tra gli anni Sessanta e Settanta. È lui che, con entusiasmo e determinazione, coordina la rinascita del tempio granata. «La Fondazione», ci spiega Salvadori, «è composta dal Comune di Torino, dalla Regione Piemonte, dal Torino FC e da sette associazioni di tifosi, tra cui quella che gestisce il Museo del Grande Torino a Grugliasco. Lo scopo è quello di costruire il centro sportivo, che sarà poi affittato al Torino FC, e di realizzare la parte socio-aggregativa del complesso, alla quale tengono molto le due istituzioni coinvolte».

    Il progetto è diviso in tre lotti. Ciò ha permesso alla Fondazione di finanziarli uno per volta e di iniziare nel frattempo i lavori del primo lotto, che è già finanziato grazie al contributo complessivo di 8 milioni versati da Comune (3,5), Regione (3,5) e Fondazione Mamma Cairo (1). «Se il meteo continua ad assisterci e non sorgono ulteriori impedimenti burocratici», continua Salvadori, «prevediamo di inaugurare l’impianto sportivo, cioè il primo lotto, il 17 ottobre 2016. Ovvero, contiamo di consegnare al Torino l’impianto sportivo nel giorno in cui ricorreranno novant’anni dall’inaugurazione del Filadelfia».

    Se la parte sportiva del progetto è già quasi interamente finanziata, bisogna però trovare i fondi per tutto il resto. Il secondo lotto è composto da tutto ciò che si trova nei tre piani interni alla tribuna coperta, da alcune aree all’aria aperta e dai Piloni della Memoria. Il terzo corrisponde invece all’area che si affaccia su Via Giordano Bruno (museo, bookshop, negozi ed area ristorazione) e la sua progettazione sarà ultimata entro marzo 2016. Resta inoltre da finanziare il restauro delle due porzioni storiche di gradinata.

    Chi pagherà dunque la realizzazione del secondo e terzo lotto? «Chiunque voglia. Abbiamo infatti lanciato una campagna di crowdfunding chiamata “Insieme per il Fila”, grazie alla quale in autunno avevamo già superato il traguardo dei 200 mila euro. Si può partecipare con contributi dai 50 euro in su, fino ad ottenere, superando i 1.000 euro, l’intitolazione di un seggiolino al donatore o a una persona che non c’è più. Magari a qualcuno che avrebbe sognato di vedere risorgere questo stadio». La Fondazione inoltre porterà avanti una campagna mirata per coinvolgere i Toro Club e le imprese locali, di modo che il crowdfunding vada di pari passo con la ricerca di sponsor.

    Anche se il finanziamento della seconda parte del progetto si potrà realizzare in varie forme, ci saranno dei paletti: «Per volere dei tifosi, non si permetterà a privati di realizzare opere di tipo commerciale per finanziare l’impianto sportivo. Ovvero, niente palazzine e niente parcheggi interrati realizzati da altre società: il terreno del Filadelfia rimarrà tale nella sua interezza».

    Nei decenni passati i tifosi granata ne hanno viste e sentite tante sul Filadelfia. Troppe volte sono stati portati a sperare nella sua ricostruzione, e altrettante sono stati delusi. Per questo all’inizio è stato difficile, per la Fondazione, convincere tutti che questa era la volta buona.

    Oggi invece, la ricostruzione del Fila sembrerebbe aver messo d’accordo proprio tutti. Al progetto collaborano, ognuno nelle sue forme, soggetti che vanno dagli ultras della Curva Maratona alle istituzioni. Passando per Toro Club, associazioni, imprese e sponsor. Un’unità d’intenti che sembrerebbe irrealizzabile in qualsiasi altro contesto. «Dobbiamo essere considerati come un caso a parte», spiega Salvadori, che fa da guida alla variegata comunità di sostenitori. «Noi abbiamo alle spalle delle tragedie, intendo quelle di Superga e di Meroni, che fanno della squadra di Torino e della sua storia un caso unico non solo in Italia, ma forse al mondo. Il Filadelfia è il residuo storico di questi eventi tragici. Noi tifosi questo lo sentiamo sulla pelle e ci permette di restare così uniti verso l’obiettivo».

    Conclude emozionato: «Per trasmettere meglio il sentimento che è alla base di questa storia, vorrei raccontare una cosa. Nel 2014 sono ricorsi i 65 anni della tragedia di Superga. Il 4 maggio a Superga c’è stata una messa e un momento di raccoglimento attorno al luogo dell’incidente aereo. In questa occasione l’accesso in auto viene sempre bloccato, perciò si sale a piedi: quel giorno 20 mila persone fecero a piedi l’intero percorso! Bambini, anziani, persone col passeggino. Raramente ho provato un’emozione così forte come quella ha colto me e gli altri tifosi in quell’occasione. Questo forse aiuta a comprendere perché una intera e variegata comunità remi unita verso un unico obiettivo».

    Il rilancio del calcio italiano, è cosa nota, passa anche per la valorizzazione degli impianti e dei settori giovanili. Questo progetto, a guardarlo bene, prende due piccioni con una fava: si costruirà uno stadio e sarà utilizzato dalle giovanili del Torino. Ma non solo, perché il rilancio del calcio italiano, e questa forse è convinzione meno comune, passa anche per il recupero dei valori e delle storie che in passato lo hanno fatto grande. Aspetti che oggi vengono spesso ignorati in nome di logiche di business che hanno reso gli appassionati di questo sport sempre più clienti e meno tifosi. Per una volta, finalmente, la rinascita del nostro screditato pallone passerà invece per chi dovrebbe averlo più a cuore: in primis tifosi, club e istituzioni. Ti aspettiamo Filadelfia.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 22 gennaio 2016

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  • In Argentina i tifosi riportano il San Lorenzo a Boedo

    A volte i sogni di una comunità hanno una forza tale che non possono essere fermati né da interessi economici, né da difficoltà apparentemente insormontabili. Lo sanno bene a Buenos Aires, dove i tifosi del San Lorenzo de Almagro hanno passato il più bel Natale della loro vita. Dopo una mobilitazione durata anni, sono riusciti nell’impresa di ricomprare i terreni in cui sorgeva il Viejo Gasómetro, lo storico e amato stadio che si videro sottrarre da poteri legati alla dittatura militare. La ditta Carrefour, incalzata da una “Legge di Restituzione Storica” e da una mobilitazione nazionale, ha accettato l’offerta che riporterà lo storico club argentino nell’unico posto al mondo a cui appartiene, il quartiere di Boedo.

    Qui, agli inizi del Novecento, un prete salesiano accolse nell’oratorio della sua parrocchia un gruppo di ragazzi dediti al fútbol di strada, per salvarli dai pericoli dovuti all’aumento di bus e tram in circolazione. Nel 1908 quei ragazzi fondarono il Club Atlético San Lorenzo de Almagro, aiutati dal prete che, non a caso, di nome faceva proprio Lorenzo.

    Il quartiere di Boedo è sempre stato il cuore della Buenos Aires rosso-blu e qui, nel 1916, fu inaugurato l’impianto che per 63 anni ha ospitato la squadra. Lo stadio in legno, dipinto con i colori della squadra, divenne subito famoso per l’energia che sprigionava grazie al calore dei tifosi.

    Ma il Viejo Gasómetro non era solo uno stadio. Era un punto di riferimento per gli amanti dello sport, grazie alle discipline sviluppate dalla polisportiva, ma anche un vero e proprio centro sociale e culturale per la zona: grazie alla biblioteca, al teatro, al cinema e alle leggendarie celebrazioni del carnevale era il fulcro della vita del quartiere.

    Questo perfetto connubio tra stadio, club e territorio era però destinato ad interrompersi bruscamente nel 1979. Alla crisi economica e gestionale del San Lorenzo si aggiunse il torbido comportamento delle autorità cittadine che, facendo gli interessi del regime di Videla, riuscirono a separare il San Lorenzo dal suo stadio. L’intendente Osvaldo Cacciatore, principale carica della città di Buenos Aires, non aveva mai visto di buon occhio una squadra di calcio così impegnata in ambito sociale e culturale.

    La società fu così costretta a suon di minacce a vendere i terreni dello stadio a due aziende collegate al regime militare, peraltro ad un prezzo irrisorio. Il club ottenne in regalo il terreno di Bajo Flores, zona estranea alla sua storia, in cui il San Lorenzo disputa ancora gli incontri casalinghi. Gli accordi, se si possono definire tali, comprendevano una clausola che vietava interventi edilizi di tipo commerciale al posto dello stadio. L’anno successivo si manifestarono i reali intenti di chi aveva macchinato l’operazione: il terreno del Viejo Gasómetro fu venduto ad un prezzo otto volte maggiore alla compagnia francese di supermercati Carrefour, senza che vi fosse traccia della clausola. Fu così reciso il cordone ombelicale tra il San Lorenzo e il quartiere di Boedo, relazione scomoda in anni di dittatura militare, e un’operazione speculativa sostituì lo stadio con un enorme supermercato che, ancora oggi, si trova al civico 1700 di Avenida La Plata.

    Per più di dieci anni il San Lorenzo fu costretto a girovagare per la città, giocando sempre in trasferta ospite di qualche altro club, finché nel 1993 non si inaugurò l’attuale impianto di Bajo Flores. Ma quello che per lungo tempo rimase un sogno di pochi nostalgici, è diventato nell’ultimo decennio una battaglia concreta e collettiva: la vuelta a Boedo. Ciò è stato possibile grazie a chi, pur senza stadio, ha deciso che lo spirito del Viejo Gasómetro dovesse continuare a vivere nel quartiere. La Subcomisión del Hincha, un’organizzazione di tifosi nata dal basso, opera da anni in difesa della storia e delle tradizioni del club e porta avanti attività culturali e sociali aperte a tutti, nel segno dei colori azulgrana: sport di tutti i tipi, iniziative con le scuole, corsi di sostegno scolastico e la gestione della biblioteca “Osvaldo Soriano”. Non c’è da stupirsi se è stata proprio questa organizzazione il principale motore di tutte le mobilitazioni che hanno portato prima il club, poi le istituzioni locali, a muoversi per raggiungere lo storico accordo sancito il 23 dicembre.

    Nel 2012, dopo una stagione di accese proteste, con manifestazioni che toccarono i 100.000 partecipanti, l’organo legislativo dell’area metropolitana di Buenos Aires approvava la Ley de Restitución Histórica, una legge che, riconoscendo il sopruso avvenuto in epoca dittatoriale, obbligava il San Lorenzo e la Carrefour a trovare un accordo economico per la cessione dei terreni, pena l’espropriazione e la cessione al club sportivo. Le vie di Boedo si riempivano di una fiumana di gente colorata di rosso-blu: un’intera comunità iniziava finalmente a vedere la fine dell’esilio.

    Una fine che si vedeva, ma che non era neanche così vicina. I tifosi del San Lorenzo vollero subito mettere a tacere i politici che sostenevano l’infattibilità dell’operazione immobiliare per carenza di fondi da parte del club e delle istituzioni locali, decidendo di caricarsi essi stessi dell’onere economico che la vuelta comportava.

    Difatti la recente presentazione di un’offerta concreta da parte del club è stata possibile solo grazie ad un’enorme campagna di finanziamento popolare, coordinata dalla Subcomisión del Hincha, che ha permesso ad ogni tifoso di comprare simbolicamente il proprio metro quadrato di stadio. L’iniziativa di crowdfunding, sostenuta da tifosi illustri come Papa Francesco, Viggo Mortensen ed Ezequiel Lavezzi, ha rappresentato il fiore all’occhiello di una mobilitazione che si è distinta per essere pacifica e di massa. Su internet o presso delle sedi fisiche i tifosi, con poche centinaia di euro, hanno potuto pagare l’equivalente di un metro quadrato del terreno, a nome proprio o di chi non c’è più. E per chi non poteva permettersi l’esborso, grazie ai social network è stato possibile contribuire all’acquisto di un metro quadrato con qualsiasi cifra, condividendolo con altri sostenitori.

    Grazie a questa imponente iniziativa, il 19 novembre 2015 il San Lorenzo ha potuto finalmente presentare la sua offerta da 94 milioni di pesos per tornare in possesso dell’area. La Carrefour, allo scadere del mese che aveva a disposizione per rispondere, ha chiesto ulteriore tempo. Per tre giorni, dal 18 al 20 dicembre, numerosi supermercati Carrefour di tutta l’Argentina sono stati presidiati da migliaia di tifosi che chiedevano una risposta dovuta per legge.

    Il 21 dicembre, il Ministro della Sicurezza ha definito un nuovo ultimatum: se entro le ore 12 del 24 dicembre la multinazionale francese non avesse risposto alla proposta, i terreni sarebbero stati espropriati. Il 23 dicembre 2015, dopo ore di tese riunioni, la Carrefour ha accettato la proposta di 94 milioni di pesos che riporterà in San Lorenzo a giocare a Boedo.

    Dopo decenni di esilio, il San Lorenzo tornerà dunque al luogo che lo ha visto nascere. Non è ancora possibile sapere con certezza quando ciò avverrà, ma ciò che è sicuro, e che al momento importa, è che avverrà. Verrebbe da dire che quello ottenuto il 23 dicembre sia il più bel regalo di Natale che i tifosi del San Lorenzo potessero immaginare. Ma i regali si ricevono. I terreni del Viejo Gasómetro, invece, sono frutto di una battaglia civile durata anni, terminata con un acquisto che, dal punto di vista storico ed etico, non era nemmeno dovuto. Ma, se questo era il prezzo da pagare per mettere a tacere chi vedeva irrealizzabile l’operazione per mancanza di fondi, allora è giusto, come dice un coro che tutti i tifosi del San Lorenzo conoscono, che la vuelta a Boedo la porti avanti la gente.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 3 gennaio 2016

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