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Tag: 2016

  • La Roma è stata invitata in Spagna per rievocare l’assedio di Numanzia

    I romanisti, a volte tacciati di mitomania, si cimentano spesso nel relazionare le partite della squadra capitolina alle imprese belliche dell’Impero Romano. Basta una trasferta in Gran Bretagna per chiamare in causa il Vallo di Adriano e una a Bucarest per rievocare Traiano e la conquista della Dacia. L’estate 2017 potrebbe avere in serbo una bella sorpresa.

    Il presidente del CD Numancia, club di seconda divisione spagnola, ha intenzione di sfidare la Roma nell’anno del 2150° anniversario della conquista romana della città di Numanzia. La partita rientrerebbe nelle celebrazioni organizzate per l’anno prossimo dalla città di Soria, il più importante centro abitato nei dintorni delle rovine di Numanzia, nonché sede del club il cui nome rievoca l’antica città celtibera.

    La città fortificata di Numanzia fu l’ultimo baluardo delle popolazioni celtibere contro l’espansionismo romano nell’odierna Spagna. La sua caduta rappresentò l’ultimo atto delle cosiddette Guerre celtibere, che impegnarono i romani per circa cinquant’anni. Celebrare una sconfitta può sembrare insolito, ma l’assedio di Numanzia è ricordato ancor oggi con grande orgoglio dai locali. Nel 133 a.C. i numantini, a secco di provviste per via dell’estenuante assedio, decisero di dar fuoco alla città e di uccidersi l’un l’altro piuttosto che sottomettersi ai romani. Le truppe di Scipione Emiliano non poterono far altro che impossessarsi di un cumulo di macerie fumanti e corpi senza vita.

    Le celebrazioni del 2150° di questo tragico atto bellico avranno, come si può leggere sul sito del comune di Soria, l’obiettivo di «ravvivare il grido di libertà del popolo numantino» e di «recuperare lo spirito di resistenza» che li ha resi famosi nel mondo. Di conseguenza la partita Numancia-Roma, con tutti i significati simbolici di cui si farà carico, potrebbe rivelarsi una rievocazione storica anche in campo: i romani, enormemente più forti, costretti a faticare per sconfiggere un avversario disposto a tutto pur di non arrendersi.

    Il presidente del club Francisco Rubio, intervenuto durante l’assemblea degli azionisti lo scorso 19 dicembre, ha ribadito che si continua a lavorare per organizzare la partita. Il primo annuncio lo aveva dato questa estate, durante l’evento di presentazione della squadra: «Dopo 2150 anni sconfiggeremo Roma. E ciò accadrà nel nostro stadio».

    L’ufficio stampa del club castigliano non vuole però rilasciare ulteriori informazioni. «Il nostro Presidente ha l’obiettivo di portare la Roma a giocare la nostra partita di presentazione. Non possiamo dire null’altro, ma siamo fiduciosi», fanno sapere.

    Raul Alonso, giornalista locale di EsRadio, ci dice la sua: «Conoscendo il Presidente, se ha annunciato più volte che si sta lavorando a questa amichevole, lo ha fatto perché sa che non è una possibilità campata per aria. Credo che la situazione sia ad un punto abbastanza avanzato, altrimenti non lo avrebbe detto davanti ai tifosi. E lui di solito non è una persona che dice le cose tanto per dirle. Probabilmente manca ancora l’ufficialità perché stanno risolvendo questioni legate alla data o ai costi. O forse perché vogliono annunciare le iniziative di “Numancia 2017” tutte insieme: d’altronde è ancora presto per parlare di questa estate».

    Mancano otto mesi, ma a Soria già si lavora per rendere possibile il sogno di una “rivincita”. La partita avrà poco appeal per gran parte del tifo romanista, ma appassionerà certamente gli amanti della storia romana e quei tifosi di cui si parlava al principio. Al contrario, ospitare la Roma sarà motivo di entusiasmo per i tifosi di seconda divisione spagnola. Sperando che non chiedano ai romanisti di presentarsi allo stadio vestiti da legionari.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 26 dicembre 2016

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  • Una nuova speranza per Campo Testaccio

    È iniziato il percorso che, se rispetterà attese e promesse, restituirà Campo Testaccio ai romani. Nella giornata di ieri, giovedì 22 dicembre, si è svolta la riunione del Consiglio del Primo Municipio romano, alla quale ha preso parte anche l’assessore capitolino allo sport Daniele Frongia. La seduta si è svolta all’interno della biblioteca “Enzo Tortora”, centro culturale del comunale con vista sull’area in questione. All’ordine del giorno un solo punto: riqualificare il campo dell’AS Roma. Di fronte a numerosi cittadini e associazioni, il Consiglio ha approvato all’unanimità una mozione che ben rappresenta le prospettive urgenti e quelle più a lungo termine.

    L’urgenza è data dalle pessime condizioni di igiene e sicurezza di tutta l’area, dovute al degrado che ormai regna scandalosamente nell’area che fu la casa dell’indimenticabile Roma testaccina. Il terreno dove un tempo sorgeva il celebre stadio in legno, e più recentemente l’unico campo di calcio pubblico del centro di Roma, è ormai una giungla incolta e poco rassicurante per l’asilo nido e le due scuole che vi si trovano accanto. La chiusura della materna “Biocca” per le incursioni dei topi è stato solo l’ultimo degli episodi, dopo che un anno fa aveva fatto capolino persino un serpente. La prima richiesta che la presidente del Municipio Sabrina Alfonsi ha fatto al Comune è dunque quella di emettere urgentemente un’ordinanza per la bonifica dell’area. Richiesta che, nelle parole dell’assessore Frongia, verrà soddisfatta il prima possibile.

    Ma la bonifica è solo il primo passo. Per salvare Campo Testaccio occorre anche dirimere alcune questioni burocratiche. «Al momento non è classificato come campo sportivo, ma come parcheggio», ha dichiarato Frongia. «Spingeremo presso avvocatura e ragioneria affinché venga espunto dal Piano Urbano Parcheggi. Poi potrà tornare ad essere classificato come campo sportivo con una delibera dell’Assemblea Capitolina».

    Al di là di questo primo ostacolo, apparentemente facile da scavalcare, i consiglieri municipali chiedono che venga attivato un tavolo che veda le istituzioni, le associazioni interessate e i cittadini progettare insieme il futuro dell’area, che verrà con tutta probabilità messa a bando. La presidente Alfonsi non ha precluso alcuna possibilità: «Il progetto potrebbe essere finanziato interamente dal Comune così come dal privato, o anche da entrambi insieme. Ci sono realtà come l’AS Roma o il CONI che potrebbero essere interessate a partecipare».

    L’assessore Frongia ha confermato la disponibilità da parte del Comune ad ascoltare le istanze del territorio, anche se è presto per poter parlare dettagliatamente del futuro dell’area. Ciò che è stato confermato da tutte le forze politiche è che la destinazione d’uso rimarrà quella di campo di calcio. Sul resto, dalla capienza degli spalti all’eventuale realizzazione di uno spazio espositivo che renda onore alla storia del luogo, la partita è ancora tutta da giocarsi. 

    Frongia ha inoltre sottolineato che solo dopo la classificazione dell’area come campo sportivo si potrà procedere contro l’occupazione senza titolo da parte del privato. Il terreno è infatti ancora rivendicato dal Consorzio Romano Parcheggi, l’impresa che aveva vinto la concessione per realizzare un parcheggio interrato, poi definitivamente revocata l’anno scorso con le sentenze del TAR e del Consiglio di Stato. «La ditta – ha spiegato l’assessore – è tenuta inoltre a risarcire il Comune per una cifra che, solo per ciò che riguarda il livellamento della buca e il ripristino del campo di gioco, ammonta a un milione e trecentomila euro. Parliamo di un’azione civile che va da uno a tre anni, ma ciò non significa che non faremo nulla fino a quel giorno, perché è un percorso che va in parallelo».

    Proprio per questo, tra le richieste presentate dai consiglieri nella mozione, vi è quella di impegnare nel bilancio di Roma Capitale i fondi destinati al livellamento della buca e al ripristino del campo di calcio, da recuperare successivamente presso il privato. Ma per Frongia «non si può ancora fare, perché l’area non rientra ancora tra gli impianti sportivi comunali».

    «Direi di rivederci presto, convocando il tavolo pubblico e per iniziare a parlare del futuro dell’area. Ma ancora prima sarà fatta l’ordinanza per la bonifica» ha concluso il rappresentante del Campidoglio.

    Riassumendo, gli step per il recupero di Campo Testaccio sono questi: bonifica urgente dell’area; espunzione dal Piano Urbano Parcheggi e poi classificazione come campo sportivo. Nel frattempo, un tavolo partecipato permetterà di discutere del suo futuro e di farsi trovare pronti con le proposte quando sarà il momento di mettere a bando l’area. Il percorso non è semplice, ma il clima di collaborazione tra i diversi schieramenti politici e tra le due istituzioni fa ben sperare. Che Campo Testaccio abbia messo d’accordo tutti? Al momento sembrerebbe di sì, ma parleranno solo i fatti. Ormai il Primo Municipio e il Comune di Roma si sono esposti e dovranno rendere conto ai cittadini del futuro di quell’area.  

    Pubblicato su Gioco Pulito il 23 dicembre 2016

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  • Astra Giurgiu, la squadra mai amata

    L’Astra Giurgiu, prossimo avversario della Roma in Europa League, viene dal periodo più vincente della sua lunga storia. Eppure, nonostante i recenti successi e la longevità, non è una squadra che abbia mai riscosso grande seguito.

    Innanzitutto, va segnalato che prima del 2012 l’Astra Giurgiu non è mai esistita. È esistita, e per lungo tempo, l’Astra Ploiești, fondata negli anni Trenta come emanazione della compagnia petrolifera Astra-Română, con sede nella città di Ploiești. Per circa sessant’anni il club non ha mai raggiunto i livelli alti del calcio romeno, senza riuscire nemmeno ad aggregare una tifoseria numerosa e fedele. La squadra del popolo di Ploiești, infatti, è sempre stata il Petrolul.

    La svolta nella storia dell’Astra è rappresentata dall’uomo che da vent’anni ne è il padre padrone: Ioan Niculae. È lui luomo più ricco di Romania secondo Forbes, proprietario del gruppo InterAgro, colosso nel campo della coltivazione di cereali e dei fertilizzanti. L’uomo che nel 1996 ha comprato l’Astra Ploiești e che nel 1998 l’ha portata per la prima volta in massima serie romena. L’uomo che ha fuso il club con i rivali del Petrolul, per poi veder fallire l’esperimento e rifondare l’Astra. L’uomo che ha portato l’Astra all’apice della sua storia, vincendo dalla stagione 2013-14 ad oggi un campionato, una Coppa di Romania e due volte la Supercoppa. Ma anche l’uomo che nel 2012 ha deciso che la città che da sempre ospitava il club non sarebbe più stata la sua casa.

    Damiano Benzoni, caporedattore della pagina sportiva di East Journal, ci spiega questa decisione: «Le autorità locali di Giurgiu, città tranquilla e poco interessata al calcio, cercavano una squadra per la città. L’Astra aveva sempre vissuto all’ombra del Petrolul, con poche gioie e pochi tifosi. Il trasferimento è stata una scelta di mercato: dopo aver accusato le autorità di Ploiești di non sostenere l’Astra, Niculae ha investito 3 milioni per costruire un nuovo stadio a Giurgiu e ci ha portato il club, sperando di incontrare il favore dei locali».

    «A Ploiești l’Astra aveva pochi tifosi, attaccati più ai risultati che alla squadra – continua Benzoni – tuttavia a Giurgiu si è ripetuta la stessa situazione: basti pensare che l’anno scorso l’Astra ha vinto il primo scudetto della sua storia, viaggiando sui circa 3500 spettatori a partita. Quest’anno, nonostante la competizione europea, sono la metà. A Ploiești i risultati erano simili. Intanto il Petrolul, fallito un’altra volta, quest’anno registra le 6000 presenze in quarta divisione».

    Interpellato sulla somiglianza tra la storia dell’Astra Giurgiu/Ploiești e quella del Wimbledon/MK Dons, di cui abbiamo già parlato, Benzoni risponde così: «Certamente sono due storie affini, ma con l’unica differenza che i pochi tifosi dell’Astra Ploiești, quando si sono visti portar via il club, non lo hanno rifondato. I gialloblù del Petrolul, al contrario, hanno sempre avuto un’identità forte e quando il club è fallito i tifosi lo hanno seguito anche nelle serie minori. Eppure è curioso che anche il Petrolul sia in realtà passato per un trasferimento,da Bucarest alla sua attuale sede, nel 1952. Si chiamava Juventus Bucarest e aveva nel suo stemma la lupa capitolina, che ora sopravvive solo nel soprannome di “lupi gialli”. Ma è evidente che, nonostante non sia nata lì, l’unica squadra di Ploiești sia sempre stata il Petrolul».

    A settembre, quando è stata battuta per 4-0 dalla Roma nella partita d’andata, l’Astra Giurgiu viveva una situazione societaria di massima criticità, con i giocatori che non prendevano lo stipendio da mesi e debiti verso lo Stato e i fornitori. In estate erano stati venduti i due grandi artefici della stagione che aveva reso l’Astra “il Leicester di Romania”: i brasiliani William e Boldrin, ceduti allo Steaua Bucarest per tenere in vita la società.

    Oggi, a distanza di due mesi e poco più, la situazione è parzialmente cambiata. Grazie alla cessione (sempre allo Steaua) di altri giocatori e ai soldi dell’Europa League, l’Astra è riuscita a stare a galla. E se in campionato la posizione di mezza classifica la condanna doversi guardare più alle spalle che davanti, in Europa ha invece invertito la tendenza iniziale conquistando sette punti e la speranza di passare il turno.

    Tuttavia, nonostante calciatori e staff percepiscano di nuovo lo stipendio, il futuro è tutt’altro che florido. Il patron Niculae è infatti accusato di disinteressarsi del club da quando nel luglio scorso è uscito di galera con la condizionale. Era stato arrestato poco più di un anno prima, per aver finanziato illegalmente la campagna elettorale del Partito Socialdemocratico romeno. Ha dichiarato che il club si autofinanzierà, ma i pochi tifosi, ben consci delle sue possibilità economiche, vedono il suo atteggiamento come un abbandono.

    Pur avendo vinto il campionato l’anno scorso, l’Astra è destinato a fallire, o perlomeno a ridimensionare drasticamente i suoi obiettivi sportivi. «In Romania è già successo che chi ha vinto lo scudetto fallisca poco tempo dopo. È successo al Rapid Bucarest, all’Unirea Urziceni, all’Oțelul Galați. Purtroppo il calcio romeno vive una situazione al momento senza vie d’uscita – conclude Benzoni –  impoverito nelle rose e senza alcun investimento sul calcio giovanile. L’unico progetto a lungo termine è quello di Gheorghe Hagi, considerato il miglior giocatore romeno di sempre, che ha acquistato il Viitorul Constanța e ne ha fatto una vera e propria accademia calcistica».

    Si ringrazia Damiano Benzoni, che potete leggere sulla pagina sportiva di East Journal e sul suo blog Dinamo Babel

    Pubblicato su Gioco Pulito il 6 dicembre 2016

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  • Il fascino indiscreto della “franja roja”

    Una pennellata di rosso che sporca la verginità della maglia bianca: sua maestà la fascia diagonale. Semplice, classica e al contempo anticonformista. Nota a tutti eppure rara, estremamente riconoscibile sul rettangolo di gioco in qualsiasi condizione climatica. Un pezzo di stoffa cucito su pesanti maglie di lana di cento anni fa che oggi è divenuto leggenda. Qui ripercorriamo la storia di cinque squadre il cui petto è attraversato dalla fascia rossa. Anzi, ripercorriamo la storia della franja.

    1) RIVER PLATE

    Il River Plate è la squadra dalla franja roja per eccellenza. Fu probabilmente il primo club ad adottarla, almeno tra quelli che dall’era amateur sono giunti fino al calcio di oggi. L’inserimento della fascia diagonale rossa sulle divise allora bianche risale infatti a più di cento anni fa, ma le sue origini sono tuttora incerte. La versione più accreditata vuole che essa apparve per la prima volta tra il 1905 e il 1908 come espediente per differenziarsi da altri avversari che vestivano di bianco. Ma la leggenda, più romantica, dice che dei bambini rubarono una fascia di seta rossa da un carro del carnevale di Buenos Aires per abbellire le maglie del River. Un’altra versione apocrifa vuole la franja come simbolo massonico, mentre un’altra forse più plausibile la vede come evoluzione della croce di San Giorgio, voluta da alcuni fondatori italiani del River per ricordare Genova. Le radici di quel tocco di rosso affondano in un passato che, per assenza di fonti certe, non possiamo più considerare storico, ma mitico.

    2) RAYO VALLECANO

    I franjirrojos di Madrid devono la loro maglietta al River Plate e a un particolare accordo raggiunto con i più blasonati concittadini dell’Atlético Madrid. La squadra del quartiere operaio di Vallecas indossò infatti una divisa totalmente bianca per più di trent’anni dal giorno della sua fondazione, avvenuta nel 1924.

    Nel 1949 il club si trovava in condizioni economicamente sfavorevoli e si vide costretto a sedersi al tavolo con l’Atlético per trattare la cessione temporanea di alcuni giocatori. Ne risultò il seguente accordo: i colchoneros prestavano i giocatori per un anno, ma durante quel tempo il Rayo avrebbe dovuto aggiungere un particolare rosso alla sua maglia, al tempo troppo simile a quella del Real Madrid. Il Rayo scelse di utilizzare una divisa come quella del River Plate. Dopo una stagione i giocatori tornarono all’Atlético, ma il Rayo scelse di mantenere la franja. Negli anni immediatamente successivi, in occasione di un Real Madrid – River Plate, la dirigenza del Rayo volle dimostrare la propria stima al club argentino regalando una foto firmata dai giocatori. Ricevette in cambio due set di magliette del River. Oggi a Vallecas la franja ha assunto una valenza simbolica talmente forte da poter essere utilizzata come sineddoche per riferirsi al Rayo. Luchar por la franja = lottare per il Rayo. Chiaro?

    3) PERÙ

    L’apparizione della fascia rossa sulle maglie della selezione peruviana coincide con una pagina incredibile di storia sportiva: il torneo di calcio ai Giochi Olimpici del 1936 nella Germania nazista. Quello vinto dalla Nazionale italiana. Il Perù esordì sconfiggendo la Finlandia ai quarti per 7 a 3. Poi fu la volta dell’Austria: il primo tempo si chiuse sul 2 a 0 per gli austriaci, ma il secondo finì 2 a 2. I tempi supplementari sancirono la vittoria del Perù per 4 a 2, nonostante tre ulteriori goal annullati e un arbitro accusato di parzialità. La FIFA però annullò la partita per un’invasione di campo dei tifosi peruviani: armati e violenti, secondo gli europei, pacifici, secondo i sudamericani. Il Perù si rifiutò di ripetere il match e ritirò la sua intera delegazione olimpica, che a Lima fu ricevuta con un bagno di folla.

    Durante l’edizione Centenario della Copa América il Perù ha indossato una particolare divisa con la fascia diagonale più fina che termina circa a metà della maglia: era un omaggio alla selezione che nel 1939 vinse il suo primo trofeo internazionale, il Campeonato Sudamericano, poi divenuto Copa América.

    4) MANTOVA

    C’è anche un’italiana nel club della franja roja. Il Mantova è stato bianco-azzurro fino al 1956. Quell’anno la società ottenne la sponsorizzazione da parte della raffineria OZO, la quale impose l’adozione dei colori aziendali, che – per fortuna di tutti – sono anche i colori comunali. La banda rossa, assieme alla “O” di OZO, caratterizzò le divise mantovane durante gli anni della sponsorizzazione e nei successivi anni Sessanta. Riapparve occasionalmente negli anni Novanta e fu definitivamente adottata a metà degli anni Duemila sotto la presidenza di Fabrizio Lori. Nel 2011, in occasione del centenario, il Mantova ha riunito tutti i colori della sua storia in una sola maglia: fondo azzurro e fascia diagonale bianco-rossa.

    5) SEVILLA ATLÉTICO

    L’ultima squadra da includere in questa piccola selezione di club franjirrojos (come si dice in italiano, rossofasciati?) è una cosiddetta squadra B. Nel 1950 nacque il CD Puerto, club gialloblù amministrato dall’autorità portuaria di Siviglia, famoso per aver ospitato nel 1953 la prima partita con illuminazione elettrica su suolo spagnolo. In pochi anni il CD Puerto passò dal calcio locale alla Tercera División, senza tuttavia riuscire a costruire una comunità di tifosi degna della categoria. Il club si affiliò al Siviglia nel 1958, pur mantenendo i propri colori e simboli.

    Nel 1960 il Siviglia decise che la squadra affiliata dovesse allinearsi anche dal punto di vista dell’identità visiva. Alla fine dei negoziati tra le due dirigenze, il CD Puerto assunse nome, colori e stemma simili ma non identici a quelli del Siviglia. Si decise dunque che la tradizionale maglia bianca sarebbe stata attraversata diagonalmente da una fascia rossa e che lo stemma sarebbe stato di forma uguale a quello della prima squadra, ma con la Torre della Giralda e la franja roja al suo interno.

    La banda rossa fu poi abbandonata a partire dagli anni Settanta. Negli anni Novanta la Ley del Deporte 10/1990 obbligò tutti i club a inglobare le squadre affiliate e anche il nome cambiò in un banale Sevilla B. Tuttavia, nel corso degli anni 2000 il Sevilla Atlético ha recuperato la sua identità visiva originale, risalente al 1960, ed è pertanto l’unica squadra B spagnola con la maglia differente dalla prima squadra. Ah, al momento è anche l’unica squadra B spagnola a giocare in Segunda División.

    6) BIRRA RED STRIPE

    Aggiungiamo un bonus track a questa piccola selezione. Non è una squadra di calcio, ma una birra. Fondata in Giamaica nel 1928, è stata sponsor della Nazionale di Bob giamaicana e dà tuttora il nome al principale campionato di calcio dell’isola, la Red Stripe Premier League. Per la sua etichetta e per aver fatto della red stripe il suo principale segno di riconoscimento, le spetta di diritto un posto in questa piccola rassegna.

    Pubblicato su Crampi Sportivi il 7 novembre 2016

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  • L’Atletico Madrid ha usurpato l’identità dell’Athletic Bilbao?

    Stando alle parole di Javier Aldazabal, segretario del consiglio direttivo del club basco, sì. Il dirigente dell’Athletic ha sollevato un polverone pronunciando queste parole durante l’assemblea annuale dei soci: «L’Athletic è un marchio. Al giorno d’oggi sarebbe impensabile che qualcuno inventasse la “Coca Cola di Biscaglia”, usurpando il nome di terzi. Per di più, loro hanno usurpato nome, colori e stemma dell’Athletic […]. Dopo 100 anni di uso consentito e pacifico adesso è complicato tornare indietro».

    Il riferimento è a ciò che accadde nel 1903, quando fu fondata la squadra oggi chiamata Atlético de Madrid. Alcuni studenti baschi residenti a Madrid, tifosi dell’Athletic, decisero di porre fine alla nostalgia verso il club biancorosso fondandone una succursale madrilena. Fu così che fondarono l’Athletic Club Sucursal de Madrid, che riprese nome, colori e stemma di quello bilbaino. Anzi, l’affinità tra i due club era molto più profonda, in quanto quello di Madrid rimase fino al 1921 una vera e propria costola dell’Athletic Club di Bilbao. Basti pensare che il punto 6 dello statuto del neonato club dichiarava che le due squadre non si sarebbero mai potute affrontare in competizioni ufficiali.

    Evoluzione dello stemma dell’Athletic Bilbao

    È proprio qui il nocciolo della questione. Seppur l’Atlético non ha voluto rispondere ufficialmente alle parole di Aldazabal, chi difende il club madrileno apporta una giustificazione forse superflua per la sua ovvietà: come si può tacciare di furto di identità un club che fu fondato proprio in omaggio all’Athletic, tanto da rappresentarne una succursale? Come ha dichiarato lo scrittore e giornalista sportivo José Antonio Martín, conosciuto in Spagna come Petón, «nelle vetrine dell’Athletic ci sono finali della Copa de España nelle quali furono schierati più giocatori dell’Athletic di Madrid che dell’Athletic di Bilbao».

    La supposta usurpazione dei colori e dei simboli dell’Athletic fu invece un’azione concordata tra la dirigenza di Bilbao e la succursale di Madrid. Negli anni che seguirono la fondazione del distaccamento madrileno, entrambi i club indossavano una divisa mezza bianca e mezza blu, come quella dei Blackburn Rovers, e condividevano lo stemma che vedeva una “A” e una “C” sovrapposte e racchiuse in due fasce bianco-blu.

    Evoluzione dello stemma dell’Atletico Madrid

    I due Athletic furono uniti anche nel cambio di colori: nel 1910 Juan Elorduy, giocatore e dirigente del club basco, si recò nel Regno Unito e con l’occasione ebbe l’incarico di comprare le maglie per entrambe le formazioni. Ma, come spesso è accaduto agli albori del calcio europeo, una casualità determinò l’andamento della storia: non riuscendo a trovare le divise del Blackburn, Elorduy tornò in terra iberica con quelle bianco-rosse del Southampton. La scelta di Elorduy, fatta all’ultimo minuto per non tornare a mani vuote, ancora oggi determina i colori sociali di Athletic e Atlético.

    La separazione ufficiale dei due Athletic avvenne nel 1921, anche se già da anni il club di Madrid si era reso più indipendente. La finale di Copa del Rey di quello stesso anno vide per la prima volta opporsi le due formazioni sorelle, entrambe vincitrici del proprio campionato regionale. Il direttivo dell’Athletic di Bilbao chiese di poter giocare la finale nella capitale basca invece che a Siviglia, dove era prevista. Il presidente dell’Athletic di Madrid accettò e, complice la sconfitta, fu sommerso dalle critiche dei tifosi madrileni. La partita tuttavia si giocò in un clima di festa e il San Mamés con 20 mila spettatori fece record di incassi.

    È dunque evidente che le parole pronunciate da Aldazabal siano state prive di senso e soprattutto di fondamento storico. Non è bello vedere come una storia di fratellanza durata quasi vent’anni sia oggi del tutto ignorata da chi rappresenta il club. Ma non si può criticare solo il dirigente dell’Athletic Bilbao. Da una rapida occhiata online, risulta evidente che la dirigenza dell’Atlético Madrid cerchi di nascondere il passato di squadra-succursale, considerato forse poco onorevole per un club il cui palmarés ha superato quello della squadra-madre.

    Basta cliccare sulla sezione “Storia” del sito dell’Atlético per scoprire che l’obiettivo degli studenti baschi che lo fondarono era solo quello di creare “una nuova istituzione che avrebbe dovuto competere con il più nobile e impeccabile talento sportivo”. Ma come? Nessun riferimento al fatto che fossero tifosi dell’Athletic di Bilbao? Non si legge da nessuna parte che la fondazione del club di Madrid è stata un genuino atto di omaggio verso il club basco. Andando avanti sulla linea del tempo che presenta la pagina web, non si incontra alcun riferimento alla subalternità della squadra madrilena rispetto a quella basca. Lo stesso accade nella sezione dedicata alle maglie del club.

    Ovviamente nessun dirigente dell’Atlético negherà mai esplicitamente il passato, ma è evidente il tentativo di nascondere il ventennio di subalternità nel “biglietto da visita” del club online, sia in spagnolo che in inglese. Questo aspetto non va sottovalutato, soprattutto per un club dalla vocazione internazionale come l’Atlético Madrid di oggi. E allora, se si vuole evitare altri errori da parte di dirigenti dell’Athletic, può essere forse utile aggiornare la propria presentazione online e ricordare al mondo di essere nati come succursale del club di Bilbao. Senza vergognarsi.

    In copertina: “Idilio en los campos de sport”, dipinto di Aurelio Arteta (1913-15 ca), raffigurante il celebre attaccante dell’Athletic Bilbao “Pichichi” e la sua fidanzata

    Pubblicato su Gioco Pulito l’1 novembre 2016

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  • Il calcio di Giacomo Losi: “In campo valori e umiltà, sugli spalti amore e ombrellate”

    Conoscere di persona i campioni del passato fa un certo effetto. Ancor di più se ci si trova davanti Giacomo Losi, quindici stagioni nell’AS Roma dal 1954 al 1969, terzo per presenze dopo Totti e De Rossi. Mai un’espulsione in carriera, un solo cartellino giallo proprio durante l’ultima partita.

    L’effetto è amplificato se il tutto accade nell’angusto spogliatoio di un campo di calcio romano, dove ogni sabato mattina “er Core de Roma” dirige gli allenamenti dell’ItalianAttori. Losi ha portato con sé un oggetto speciale. Avvolta in un foglio di carta, dal suo borsone estrae la riproduzione in scala della Coppa delle Fiere che sollevò nel 1961: “Tiè, lo sai che è questa?”. È l’esemplare in miniatura che consegnavano solo ai capitani delle squadre vincitrici.

    Lo scorso 11 ottobre è ricorso l’anniversario della vittoria della Coppa delle Fiere del 1961, unico trofeo internazionale vinto dalla Roma oltre al Torneo Anglo-Italiano. In carriera lei ha inoltre vinto due coppe nazionali. L’odierna Europa League e la Coppa Italia sono oggi competizioni sottovalutate?
    Chi le sottovaluta sbaglia. Questo è l’unico trofeo europeo vinto dalla Roma. [Mi porge la replica della Coppa delle Fiere, nda]. Uno deve scendere in campo sempre con l’idea di vincere. Io se potevo vincere anche la Coppa del Nonno, davo tutto e cercavo di trasmetterlo ai miei compagni. In Svizzera giocammo la Coppa delle Alpi: io volevo vincerla, anche se era considerata una competizione secondaria. Sai, noi romanisti abbiamo poco da fare gli schizzinosi.

    Quanto sono cambiati i calciatori dai tempi in cui lei giocava?

    Moltissimo. In generale c’era più umiltà. Oggi molti sono orientati più al proprio tornaconto che a quello del gruppo. Pensa che io giocai il ritorno di Roma-Hibernian, semifinale di Coppa delle Fiere, il giorno dopo aver giocato in Nazionale. Arrivai al ritiro pre-partita e l’allenatore mi chiese: “Te la sentiresti di giocare?”. E io: “Subito!”. Poi lo chiese agli altri che risposero: “Magari!”. E chissà come sarebbe andata senza di me, visto che sul pareggio salvai un goal sulla linea permettendo alla Roma di giocare la bella, che vincemmo 6-0.

    E i tifosi come sono cambiati?
    I tifosi oggi sono più polemici, si sentono tutti allenatori. Ai miei tempi c’era il vero amore incondizionato. Andavano allo stadio per vedere la partita, tutta la famiglia, con le pagnottelle da mangiare. L’Olimpico era pieno anche se giocavamo contro la Pro Patria. Oggi la partita non è più il “rito sacro” che diceva Pasolini, lo stadio non si riempie nemmeno al derby. L’ultima volta che sono andato guardavo gli spalti semivuoti e mi faceva impressione. Non si fa nulla per avvicinare i tifosi.

    Poi, questa storia delle barriere nelle curve dell’Olimpico è assurda. Come se c’entrassero qualcosa con la violenza. Ai tempi miei c’erano le vere risse sugli spalti, ma non gli si dava tutta questa amplificazione mediatica. Oggi invece se ogni tanto c’è una scazzottata viene montata da giornali e tv come fosse la fine del mondo. Ai tempi miei sai le ombrellate che volavano! Ma mica se ne accorgeva nessuno, finiva lì.

    Lei con Pasolini ci ha giocato, vero?

    Ci ho giocato e l’ho allenato, perché già al tempo allenavo la Nazionale Attori. Nel 1971 giocai con lui una partita allo Stadio Flaminio: ex giocatori di Roma e Lazio contro attori. In quell’occasione lo marcavo, era un giocatore modesto, ma innamorato di questo sport. La cosa bella è che non faceva pesare la sua personalità: lui era Pasolini cazzo, ma non ce ne accorgevamo.

    Avevamo molto in comune, se ci penso. Entrambi negli anni Cinquanta eravamo venuti dalla provincia del Nord in questa enorme capitale col cuore pieno di speranza. Tutti e due ne siamo divenuti un simbolo.

    Eravamo entrambi due antifascisti: io da piccolo portavo le munizioni ai partigiani che dalle mura sparavano ai nazisti, mio padre era facchino e mia madre filandiera. Nonostante ciò parlammo sempre e solo di calcio, mai di politica. Con lui era così. Oggi l’Italia avrebbe bisogno di un intellettuale come lui, anche lo sport ne beneficerebbe.

    La dirigenza dell’AS Roma secondo lei sta valorizzando la memoria del club?

    Qualcosa hanno fatto, come la Hall of Fame, ma si potrebbe fare di più. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato. I giovani devono imparare la storia, e invece i tifosi di oggi non sanno nemmeno come è nata l’AS Roma. Anche Campo Testaccio è scandalosamente abbandonato. Per me, da romanista, quel campo è una reliquia: ci vorrebbe un maggiore sforzo per salvarlo.

    Lei ha una scuola calcio a Valle Aurelia. Com’è il calcio di base a Roma?

    Il comportamento dei ragazzini è diverso dai tempi miei. Molti genitori pensano di avere in casa un Totti o un Pelè. I miei non sapevano nemmeno che andavo a Cremona a giocare, non so se mi spiego. Ed avevo sedici anni! Mai che mio padre m’avesse detto: “T’accompagno io”. Era impossibile che la cosa si esasperasse, si restava coi piedi per terra.

    Oggi invece tutto è esasperato. Questo rovina i tifosi e i giovani appassionati. I bambini di oggi non hanno con la passione del calcio come sport, hanno la passione del calcio come spettacolo televisivo, o videogioco, quelle cose elettroniche là.

    Così si perdono i valori del vero calcio, quindi non mi stupisco che ci sia il doping anche tra i giovani delle categorie amatoriali. Alcuni ne approfittano, altri sono ingenui e pensano che queste cose gli facciano bene. Io le pasticchette di Herrera le buttavo per terra, lui non mi accettò anche per questo.

    Cosa insegna ai bambini?
    La prima cosa che insegno sul campo è l’educazione. Mi piace che in campo si comportino bene perché se lo fanno in campo lo fanno anche nella vita. Quando presi il mio primo ed unico cartellino giallo, durante la mia ultima partita, l’arbitro mi chiese scusa, perché sapeva che ci tenevo. Ma era meritato, mi avevano lasciato solo là dietro e io ne dovevo tenere due.  

    Come divenne amico di Di Stefano?

    Fu nel 1956, durante una tournée in Venezuela con Real Madrid, Porto e Vasco da Gama. Stavamo nello stesso albergo, alla mensa ci davano il minestrone. Il nostro massaggiatore Cerretti portò da Roma un sacchetto di Grana Padano per usarlo durante i pasti. Di Stefano dal tavolo del Real Madrid vedeva che mettevamo il formaggio sulla minestra, mi si avvicinò e mi disse: “Cos’è quello?”. Glielo feci assaggiare e mi chiese come poterlo avere a casa. “Dammi il tuo indirizzo e te lo spedisco”, dissi io. E gli mandai una forma di Grana. Da quel giorno diventammo amici. Lui è uno dei più grandi giocatori mai esistiti, un simbolo di un calcio ormai andato.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 13 ottobre 2016

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  • Che fine hanno fatto i compagni di giovanili di Totti?

    “Zero a zero” è un film documentario diretto da Paolo Geremei. Racconta le storie di tre promettenti talenti delle giovanili romaniste nati nel 1977. Un anno dopo Totti, con il quale hanno condiviso alcuni anni in maglia giallorossa.

    Sono le storie di tre giovani campioni, promesse del calcio il cui destino di gloria sembrava segnato. Storie che, per motivi differenti, sono andate diversamente da come ci si aspettava e che insieme narrano una sorta di anti-storia del calcio: quello che poteva essere e non è stato, le vicende umane di chi al calcio ha regalato la propria giovinezza per poi scoprire che non era quella la sua strada. In questa intervista, il regista Paolo Geremei risponde ad alcune domande sul suo film, che sarà distribuito per la prima volta in DVD dal 10 settembre in edicola.

    • Daniele Rossi, attaccante, nel 1993 segnò il goal-scudetto con gli Allievi Nazionaligiallorossi. Davanti faceva coppia con Francesco Totti. Nella finale contro il Milan il numero 10 sulle spalle lo aveva lui. Oggi lavora in una pizzeria di Testaccio e allena una squadra giovanile.
    • Marco Caterini era il portiere della Nazionale Under 16. Nel 1992 aveva giocato a Wembley in un’amichevole contro l’Inghilterra. All’Europeo di categoria del 1993 era partito titolare, con Buffon in panchina. Oggi fa il geometra e, ogni tanto, pensa ancora alla sua carriera che non ha preso il volo.
    • Andrea Giulii Capponi era invece il portiere della Nazionale Under 17. È andato in trasferta con la Roma a Madrid e poi in ritiro con Carlo Mazzone. Dopo aver giocato nel calcio dilettantistico, oggi prepara i portieri della Lazio.

    Paolo, come mai hai scelto di raccontare l’altra faccia della medaglia del mondo del calcio?

    Non sono partito dall’idea di parlare di calcio. Sono partito da queste storie, che secondo me meritavano di essere raccontate, al di là della mia passione per il pallone. Non le ho raccontate da esperto di calcio, ma da curioso, facendo spesso domande semplici, che avrebbe fatto chiunque. Ho iniziato a girare non sapendo assolutamente dove saremmo andati a finire. Penso che alla base della buona riuscita del film c’è il rapporto di totale sincerità che si è instaurato con i tre ex calciatori.

    Al giorno d’oggi siamo bombardati di notizie sul calcio, è ormai difficile cogliere il lato umano dei calciatori, distinguere la loro immagine pubblica dalla loro personalità. Tu sei entrato in stretto contatto con tre ex potenziali campioni. Se le loro carriere fossero andati per il verso giusto, forse non si sarebbero mai aperti così. Ti ha fatto effetto?

    Probabilmente avrebbero sviluppato caratteri un po’ differenti, ma ho conosciuto tre persone talmente splendide che forse sarebbe cambiato solo l’atteggiamento, mentre la loro sostanza sarebbe stata la stessa.

    Il recente abbandono del giovane laziale Cardelli ci dà spunti su cui ragionare: ha accusato il sistema-calcio delle giovanili di essere “esterofilo” e di non favorire la crescita di talenti italiani. Ma soprattutto svela quanto i club possano essere spietati verso i proprio giovani. Qual è il sentimento dei tre atleti verso il club in cui hanno giocato, la Roma?

    Andrebbe chiesto a loro ed è un tema ovviamente delicato. Comunque, a posteriori, sono contenti di aver fatto ciò che hanno fatto, soprattutto Caterini e Rossi. Sono coscienti di aver avuto di aver vissuto emozioni forti e momenti che chiunque sognerebbe, di aver avuto allenatori fantastici e di aver giocato al fianco di grandi giocatori. Ciò gli permette anche di pensare alla carriera da allenatore. Se poi hanno del rancore verso qualche dirigente o procuratore è un qualcosa che va al di là di questo.

    La tua opera va contro la retorica comune secondo cui “se insegui i tuoi sogni ce la farai”. Il film ci dice: se qualcosa va storto e non dipende da te puoi anche non farcela. Forse aiuta ad affrontare in maniera positiva il venir meno di un sogno, è così?

    Aiuta sicuramente e credo che questo sia un aspetto molto importante. Sia per i ragazzi, sia soprattutto giocatori e allenatori. Penso che il film abbia una forte valenza pedagogica: insegna come approcciarsi al calcio e in generale ai propri sogni. Ma forse bisogna essere un po’ maturi per comprenderlo bene, ad esempio dei ragazzini di 14 anni dopo averlo visto hanno detto: “Tanto a me non succede, io ce la faccio”. È stato quasi un rifiuto.  È invece molto utile che lo vedano genitori e allenatori proprio per saper aiutare tutti quei ragazzi il cui sogno di divenire calciatore non si realizza.

    È vero che da un lato il film insegna che la carriera si potrebbe interrompere per motivi non dipendenti dal giovane calciatore, ma dall’altro sprona a dar tutto e a far sempre meglio. Ad esempio il padre di un giocatore spiega come il figlio fosse totalmente cosciente della sua bravura, tanto da poter scongiurare qualsiasi cessione a club minori. Ma le carriere calcistiche sono determinate da moltissimi fattori alieni a ciò che succede sul campo, è proprio per questo che in allenamento e in partita bisogna sempre cercare di superarsi. Bisogna conquistarsi anche ciò che si ritiene dovuto.

    Rossi allena, Capponi prepara i portieri, Caterini ha giocato in categorie minori. Così come una miriade di ex giocatori si re-inventa in ruoli più o meno importanti nel calcio. Perché è così difficile lasciare del tutto il mondo del pallone?

    Forse è difficile, ma loro vogliono allenare. Più che stare nel mondo del calcio, vogliono proprio il contatto col pallone, col campo, coi bambini. Ma ovviamente, in generale, è difficilissimo rinunciare al calcio: immagina un giovane calciatore che ha sacrificato tutta la propria vita allenandosi, senza aver proseguito gli studi. È normale che quando svanisce il sogno di divenire calciatore sia difficile rimboccarsi le maniche pensare al “piano B”. Ancor di più quando sei a un passo dall’affermazione in un grande club come la Roma. Secondo me questo rende i tre ragazzi del film ancora più eroici, perché si sono rialzati da questa delusione, dopo aver giocato a Wembley, in Nazionale o al fianco di Totti.

    Cosa hanno da insegnare queste tre persone ai giovani calciatori?

    Oltre alla grande competenza tecnica che hanno sviluppato nel corso della loro carriera, possono insegnare l’atteggiamento giusto verso il calcio. Forse più che gli attuali calciatori, a parlare di calcio nelle scuole ci dovrebbero andare persone come loro.

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  • Su “Olé” parlando di Roma e San Lorenzo

    Su Olé, il più importante giornale sportivo argentino, c’è oggi una mia breve (issima) intervista sulle affinità storiche tra la Roma e il San Lorenzo de Almagro, in vista dell’amichevole di oggi.

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  • Socrates alla Roma: sogno di una notte di mezza estate

    Socrates in giallorosso. Forse una semplice suggestione giornalistica, al limite del provocatorio. Forse qualcosa di più concreto, magari nella testa del campione brasiliano, sicuramente meno nei piani della dirigenza giallorossa, che poche settimane dopo avrebbe portato a Roma Paulo Roberto Falcão. Tutto ciò su cui possiamo basarci, almeno per il momento, sono due pagine del Guerin Sportivo del 2 luglio 1980.

    In quei giorni si cerca di dimenticare il deludente campionato europeo ospitato dall’Italia, anche grazie al calciomercato che torna al centro dell’attenzione. Quell’estate, peraltro, il tema è più caldo degli anni precedenti: le frontiere calcistiche sono state infatti riaperte e ogni club può ingaggiare uno straniero.

    Sono trascorsi quasi quindici anni dal Mondiale del 1966, quando dopo l’onta di di Italia-Corea si puntò il dito contro i troppi stranieri che – si diceva – soffocavano la crescita di talenti italiani. Nell’estate del 1980, oltre al già citato Falcão, arrivarono Prohaska all’Inter, Liam Brady alla Juventus, Juary all’Avellino e Krol al Napoli.

    Al Guerino si divertirono a raggiungere quello che sarà il capitano della nazionale verdeoro a Spagna’82 e a Messico ’86. È l’inviato Gerardo Landulfo che in Brasile incontra Socrates, “grande rivelazione del 1979”, dando spazio ai suoi pensieri su un eventuale trasferimento in Italia: “Là, fra l’altro, potrei frequentare un corso di perfezionamento in ortopedia tanto per migliorare le mie cognizioni ed esperienze mediche”, commenta il Dottore.

    Ma se il calciatore non si spinge oltre i “forse”, è invece il Guerin a scatenare un putiferio sulla stampa brasiliana: l’inviato porge a Socrates la maglia della Roma e il brasiliano si lascia fotografare con la celebre divisa a fasce firmata da Piero Gratton. “Socrates sta lasciando il Corinthians”, “Socrates già veste la maglia della Roma”, scrivono alcuni giornali locali, come riporta lo stesso Guerin.

    In fondo, anche se probabilmente non vi fu nulla di concreto, la notizia non dovette risultare così inverosimile: basti pensare che la Roma, poco dopo, comprò davvero un brasiliano dalla classe inimitabile, ma si chiamava Falcão. E non è un caso che Socrates, qualche anno dopo, in Italia ci andò davvero, ma alla Fiorentina. E stavolta non per studiare ortopedia, ma per “per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio”.

    Risultato immagini per socrates alla roma mezza estate

    Di solito, ricordando grandi colpi di mercato non realizzati, si pratica l’esercizio mentale delle cosiddette sliding doors. Verrebbe dunque da chiedersi come sarebbero stati i primi anni Ottanta con un Socrates in giallorosso e un Falcão lontano da Roma. Ma in questo caso è opportuno notare che il destino ha probabilmente preso la strada migliore, senza lasciar spazio a rimpianti.

    Difficilmente, infatti, qualcuno avrebbe potuto eguagliare lo slancio che l’ottavo re di Roma seppe dare al romanismo: quella mentalità vincente che tanto manca a una squadra troppo modesta al cospetto della storia della sua città.

    Allo stesso tempo, se quell’anno Socrates fosse venuto in Italia non si sarebbe forse scritta una delle pagine più belle della storia del calcio. Nei primi anni Ottanta il dottore fu infatti protagonista della tanto utopica quanto reale stagione della Democracia Corinthiana: il suo club, il Corinthians, dimostrò al Brasile oppresso dalla dittatura che ribellarsi era possibile e doveroso.

    Grazie anche all’impegno di personalità come Adílson Monteiro Alves, direttore tecnico della squadra, e a giocatori come WladimirCasagrande e Zenon, i calciatori e lo staff del club iniziarono a praticare l’autogestione totale: dai pasti, alle divise, ai ritiri, tutto veniva scelto dal collettivo riunito. Il Corinthians, oltre a vincere il Torneo Paulista per due volte, riuscì a imporsi come simbolo della lotta dei brasiliani per la democrazia.

    Il movimento della Democracia Corinthiana seppe utilizzare il calcio come mezzo di comunicazione di massa, ad esempio scendendo in campo con slogan politici sulle maglie, sfruttando l’enorme popolarità del futebol.

    “Il 15 vota”, si legge su una divisa del 1982: la cittadinanza era chiamata a sfruttare l’occasione delle elezioni municipali, concesse dal potere centrale, per mettere ancora più in difficoltà una dittatura già vacillante.

    Qualche anno dopo, nell’ambito della campagna a favore delle elezioni presidenziali dirette, Socrates affermò che sarebbe stato pronto a rinunciare al suo imminente trasferimento a Firenze se il relativo emendamento costituzionale fosse stato approvato. L’emendamento non passò e Socrates venne in Italia, dove non brillò e soprattutto non fu capito. Gli anni Settanta erano finiti da un pezzo.

    Si ringrazia la pagina “Storia della Roma” per aver segnalato per prima l’articolo in questione, uscito sul “Guerin Sportivo” del 2 luglio 1980.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 22 agosto 2016

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  • Dale Boca, belìn: il club più prestigioso d’America, fondato su una panchina dai genovesi

    Le origini del Boca Juniors

    Buenos Aires, 3 aprile 1905. Un gruppo di adolescenti di origine italiana, abitanti del quartiere della Boca, fonda il Boca Juniors. Stimolati dal professore di educazione fisica, la combriccola si reca a casa di uno di loro, Esteban Baglietto, per dar vita a un club di calcio: qualcosa di abbastanza normale se consideriamo che nel 1907 erano stati fondati in Argentina circa 300 club calcistici. Per il chiasso provocato i giovani vengono cacciati di casa e si sistemano nella vicina Plaza Solís, dove su una panchina, scartato il nome Hijos de Italia,fondano il Boca Juniors. Boca, in onore del loro quartiere di appartenenza, e Juniors, perché l’inglese dà sempre un tocco di prestigio, soprattutto se accostato al nome di un quartiere al tempo considerato poco raccomandabile. Baglietto, presidente minorenne, non immaginava che il club fondato con gli amici di prestigio ne avrebbe guadagnato a dismisura, fino a divenire uno dei più titolati al mondo e l’unico a non retrocedere mai dalla Primera División argentina.

    Per i primi anni il Boca indossa divise dai colori altalenanti, finché nel 1907 viene adottata la colorazione azul y oro. Secondo la leggenda, non riuscendo a mettersi d’accordo sui colori da adottare, il gruppo di ragazzi si affida al fato: vanno al porto di Buenos Aires e attendono il passaggio della prima imbarcazione. La prima a passare è una barca che batte bandiera svedese. Secondo la storiografia riconosciuta dal club, invece, è Juan Bricchetto, al tempo operaio portuale, ad avvistare l’imbarcazione scandinava e a proporre l’idea agli altri. Il club adotta inizialmente una maglietta con fascia diagonale gialla su sfondo blu, poi trasformata in banda orizzontale, probabilmente per motivi logistici legati alla cucitura.

    Sembra Genova

    Baglietto, Scarpatti, Sana, Farenga, Movio… La Boca era un quartiere portuale di immigrati italiani in maggioranza genovesi, così diverso dal resto dalla città che al tempo gli altri abitanti di Buenos Aires lo consideravano quasi un’entità a parte. Nel 1882 alcuni suoi abitanti proclamarono l’indipendenza dal resto dell’Argentina: issarono una bandiera genovese e scrissero al re Umberto I chiedendo il riconoscimento della Repùblica Independiente de la Boca.  

    Povera e culturalmente vivace, con le sue caratteristiche casette colorate coperte da chapas de zinc, la Boca era popolata da operai portuali, marinai, prostitute, pittori, poeti, pizzaioli, socialisti, anarchici, garibaldini e compositori di tango. Non ci saremmo stupiti a vedervi anche una Via del Campo.

    Conseguenza diretta della prevalenza di immigrati genovesi, anche tra i fondatori del club, è che dai primi decenni del Novecento ad oggi il tifoso del Boca è sempre stato chiamato Xeneize, che significa semplicemente “genovese” in dialetto genovese. Visitando il sito ufficiale del Boca, si può constatare che è tradotto in sole quattro lingue: spagnolo, inglese, italiano e genovese. Ma la continuità con la cultura ligure non si limita alla lingua: ancor oggi passeggiando per le vie del quartiere si può assaggiare la fugaza, tipica focaccia genovese, o la fainà, la farinata di ceci.

    Il pizzaiolo del Boca

    Nessuno si stupisca, dunque, se tra i simboli del Boca figura anche un simpatico pizzaiolo, stereotipo dell’immigrato italiano della prima metà del Novecento. Il suo nome è Pedrín el fainero e non differisce molto dai pizzaioli che popolano i nostri cartoni della pizza, non fosse per la maglietta azul y oro che indossa con orgoglio. La nascita di questa mascotte è curiosa: tra il 1940 e il 1952 andò in onda una popolare trasmissione di radio-teatro chiamata Gran Pensión El Campeonato, che veniva trasmessa la domenica e introduceva ogni giornata di Primera División. I protagonisti erano gli ospiti di una pensione, ognuno rappresentante di un club della massima serie argentina, in lotta fra loro per conquistare il cuore della padrona di casa, Miss Campeonato. La storia volle che il primo anno di trasmissione coincise con la vittoria del Boca in campionato: Pedrínguadagnò una popolarità tale che al centro della Bombonera fu inscenato un matrimonio tra i due personaggi.

    Due rappresentazioni di Pedrin, il pizzaiolo del Boca

    Genova e Boca, un legame indissolubile

    Ancor oggi il legame tra Genova e la Boca è forte: nel quartiere, nonostante i grandi cambiamenti sociali, c’è ancora qualche anziano che continua a parlare genovese. Ma, al di là della lingua, tutti si riconoscono almeno in parte di sangue italiano. Anche a livello calcistico non sono mancate dimostrazioni d’affetto transoceaniche. Nel 1969-70 un gruppo di tifosi doriani assunse il nome di Ultras Tito Cucchiaroni, giocatore italo-argentino che tra gli anni Cinquanta e Sessanta militò nel Boca Juniors e nella Sampdoria. Negli anni Novanta, poi, i vertici della federazione delle peñas del Boca vollero entrare in contatto con il club doriano e i suoi tifosi: ne risultò la nascita del “Sampdoria Club Buenos Aires”. Negli anni Duemila anche i genoani hanno sancito un legame ufficiale, con la nascita del “Genoa Club La Boca”, per raccogliere i tifosi genoani della capitale argentina: è bene ricordare, infatti, che quando fu fondato il club azul y oro a Genova esisteva solo il Genoa. Infine, impossibile ignorare il triangolo che lega Genova, Napoli e Buenos Aires. Complici il gemellaggio più che trentennale tra rossoblù e partenopei, il carattere marinero delle tre città e, ovviamente, una persona chiamata Diego Armando.

    Chiedetelo a Pedrín il pizzaiolo.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 10 agosto 2016

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