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Tag: calcio

  • Né SuperLega né UEFA: il calcio moderno è quello che torna dai tifosi

    Non bisogna cadere nell’inganno della scelta tra due modelli contrapposti che poggiano sull’identico presupposto di calcio-business. L’alternativa esiste e altrove non è utopia: riaprire le porte ai tifosi, coinvolgendo la base e rendendola garante della sopravvivenza del football stesso.

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  • Anche in Spagna vincono i tifosi: niente più calcio di lunedì

    «Niente più calcio di lunedì. A partire dalla prossima stagione il pallone sarà di sabato e domenica. Vedremo che succede col venerdì, se arriveremo a un buon accordo per tutti. Il business conta, ma contano di più i tifosi». Così Luis Rubiales, presidente della Federazione del calcio spagnolo, ha annunciato che La Liga abbandonerà le partite di lunedì a partire dalla prossima stagione.

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  • La prefazione di Antonio Padellaro a “Il calcio secondo Pasolini”

    Prefazone di Antonio Padellaro a “Il calcio secondo Pasolini”, pubblicata anche su “Il Fatto Quotidiano” del 31 ottobre 2018

    I dolori (per il pallone) del giovane Pier Paolo

    «Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre. (…) L’attesa è lancinante, emozionante. Dopo, al termine della partita, è un’altra faccenda, ci si rassegna al risultato, o si esulta». Quante volte recandomi allo stadio ho pensato la stessa cosa. E quante volte mi sono un poco vergognato di quell’attesa “lancinante, emozionante”: ma come, alla tua età palpitare ancora come un bamboccio…?

    Quando ho letto che Pier Paolo Pasolini provava esattamente ciò che io provo (e con me provano milioni di esseri umani) l’ho ringraziato dal profondo del cuore. Così come va ringraziato Valerio Curcio che con la sua ricerca attenta, documentata, appassionata ci ha raccontato l’umanità di uno dei massimi pensatori contemporanei, nella sua forma più autentica e intima.

    Perché continuare a blaterare (come molti blaterano) che in fondo si tratta “solo” di una partita di calcio è una bestemmia, un’idiozia e forse anche un crimine intellettuale (fermatemi!). A costoro direi di leggere Il calcio secondo Pasolini, prima di aprire bocca, se ciò servisse a qualcosa. Perché il tifo (o come vogliamo chiamarlo), il trasporto esclusivo, ossessivo per quei colori lì, l’avversione per quelle altre maglie là (non dirò quali), non prevede parole. Il sentimento che nel volgere di un attimo può illuminarti e poi trafiggerti, quindi trafiggerti e poi illuminarti fa parte di un’oscura e insieme radiosa cerimonia interiore che non può essere spiegata. Esiste e basta.

    Però il calcio non è solo spettacolo o condivisione o emozione stando seduti sugli spalti o davanti al teleschermo. Quel gioco siamo noi, se conserviamo ancora il vigore per dare quattro calci con gli amici. Quel gioco siamo stati noi quando, da ragazzini, catapultati da un’aula polverosa, disegnavamo in un prato o per strada le linee immaginarie di un campo ideale (e perfino i pali della porta, larghi da un sasso all’altro e alti una misura immaginaria come immaginaria era la traversa). Per quelle partite Pasolini, scrive Curcio, lasciava il set a Mosca per correre a Roma, e poi dopo scapicollarsi in aeroporto.

    Racconta Franco Citti che «finita l’esaltazione, il momento magico che lo faceva ritornare come un ragazzino a sorridere e a ridere, ritornava a essere solo, immediatamente si ritrovava ad annegare nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno». Sentite Dacia Maraini: «Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone, quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».

    Di più, di meglio non si può dire. «Dimmi cos’è, cos’è», canta Antonello Venditti mentre prendo posto nel luogo della sofferenza e della gioia. Leggete questo libro e comincerete a capire: cos’è.

    Antonio Padellaro

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  • Conversando con Dacia Maraini – Il calcio secondo Pasolini

    Intervista di Valerio Curcio a Dacia Maraini pubblicata in appendice a “Il calcio secondo Pasolini”, 2018, Aliberti Compagnia Editoriale

    Dacia Maraini è un’attenta osservatrice della nostra società e dei cambiamenti culturali che l’hanno caratterizzata nel tempo. APier Paolo Pasolini è stata legata non solo da una convinta vicinanza professionale tra intellettuali, ma soprattutto da uno stretto vincolo di amicizia e da una profonda condivisione di ideali e di vedute sulla vita e sulla società: come emerge da questa breve conversazione con l’autore del libro, in cui è stata “costretta” a parlare di calcio, pur se dal punto di vista biografico e artistico di Pasolini.

    Quanto contava il calcio nella quotidianità di Pasolini?

    Contava molto, non tanto nel senso del tifo, ma come gioco, anche erotico. Il suo modo di mettersi alla pari con i ragazzi di vita, il suo modo di immergersi nella gioia del moto e dello svago. Ricordo che una volta l’abbiamo perso di vista durante uno dei tanti viaggi in Africa e l’abbiamo cercato dappertutto senza trovarlo. Eravamo preoccupati. Poi improvvisamente, l’abbiamo visto in riva al mare che giocava a calcio con una banda di adolescenti. Era bravissimo e infilava un gol dietro l’altro. Era chiaro che quei ragazzi lo ammiravano e ne erano affascinati, pur non sapendo che era un famoso scrittore e un famoso regista. Ancora ricordo la sua felicità, il suo impegno, la sua gioia nel correre in mezzo alle dune. Si capiva che si sentiva finalmente libero dalla sua maschera sociale, dagli impegni pubblici e dai pettegolezzi di chi lo guardava con sospetto.

    Franco Citti ha raccontato che «dopo le partite, si ammusoniva di nuovo. Era come se all’improvviso cadesse un velo su tutto».

    Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato.

    PPP in campo con la maglia azzurra della nazionale dello spettacolo

    Dalle sue opere e dal suo vissuto emerge l’attrazione di Pasolini per un calcio fatto di corpi, muscoli in tensione, sudore. E i suoi compagni di squadra raccontano che nelle partite metteva in gioco il proprio corpo in maniera quasi narcisistica: la divisa sempre perfetta, la forma fisica smagliante, la ricercata attenzione dei fotografi. Lei ha definito la sua omosessualità come “curatela” e come “gioco”. Sembra una definizione assai calzante con tutto ciò.

    Certamente il gioco per lui era anche erotico. Giocando faceva l’amore simbolicamente con quei ragazzini che lo incantavano. Però ci tengo a dire che non c’era niente di violento e di aggressivo in lui. Il gioco era fatto di regole – che lui seguiva con attenzione – di rispetto per l’avversario e allegria del movimento. Tante volte lo hanno accusato di violenza, perfino, denunciato per quello. E invece Pier Paolo era un uomo mite e dolce. Solo a parole, nei suoi scritti, diventava provocatore e a volte anche aggressivo, ma nella vita era pacato e gentile. Non avrebbe fatto male a una mosca. Semmai si metteva nella condizione di suscitare la violenza altrui. Come tutte le persone timide, introverse e miti attirava l’aggressività dei prepotenti. E di fatto è morto così, fatto oggetto dell’odio e della violenza altrui.

    Nel 1963 intervistò i calciatori del Bologna per Comizi d’amore. Cosa è significato a quei tempi interrogare dei calciatori su un argomento come il sesso, allora di fatto ancora un tabù?

    Era qualcosa di innovativo e anticonformista. Ma, come ho detto, le sue domande non erano mai provocatorie o prepotenti. Lui voleva capire ed era molto attento ai giovani e ai loro sogni.

    «Che le donne giochino a pallone è uno sgradevole mimetismo un po’ scimmiesco. Esse sono negate al calcio come Benvenuti o Monzon». Questa fu la risposta che diede nel novembre 1975, in una delle sue ultime interviste, sulle pagine del «Guerin Sportivo».

    Se le donne giocano cercando di fare gli uomini, ha ragione lui. Se invece giocano per il piacere di giocare, senza imitare la brutalità e, diciamolo pure, la corruzione del grande calcio maschile, perché no, fanno bene.

    […] La partitella, nel cuore della borgata,
    tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura
    di sorella, di madre, coi golf dei giorni di lavoro,
    non hanno nulla da offrire alla nuova primavera…
    Correndo Giorgio ha la faccia di Carlo Levi,
    divinità propizia, facendo una rovesciata,
    Giannetto ha l’ilarità di Moravia, il Moro
    rimandando, è Vigorelli, quando s’arrabbia o abbraccia,
    e Coen, e Alicata, e Elsa Morante, e i redattori
    del Paese Sera o dell’Avanti, e Libero Bigiaretti,
    giocano con me, tra gli alberelli del Trullo,
    chi in difesa, chi all’attacco. Altri,
    con Pedalino dal maglione arancione
    o Ugo coi blue-jeans dell’anno scorso bianchi sul grembo,
    stanno appoggiati lungo il muro color miele della prigione
    delle loro case, Benedetti, Debenedetti, Nenni,
    Bertolucci con la faccia un po’ sbiancata dal sole,
    sotto la fiacca falda del cappello, e il dolce ghigno
    della certezza sacra degli incerti. […]

    PPP, “Pietro II”, in “Poesia in forma di rosa”

    In “Pietro II”, Pasolini sovrappone dei ragazzini impegnati in una partitella in borgata alle figure di intellettuali e politici del tempo, tra cui anche lei. Questo frequentare con disinvoltura tanto ambienti del sottoproletariato quanto élite culturali rappresenta in qualche modo un’altra delle apparenti contraddizioni della sua vita?

    Sì, Pier Paolo era spesso in contraddizione con sé stesso. Fra l’altro le donne che lo circondavano erano intellettuali, agguerrite, colte, consapevoli. Nelle donne cercava le sue simili. Nei ragazzi cercava invece l’altro, il corpo sessuato da conquistare e amare. Lui diceva spesso che non avrebbe mai potuto fare l’amore con una donna perché sarebbe stato come farlo con sua madre. Aveva un rapporto viscerale con la madre, evidentemente nato in famiglia quando il padre, da affettuoso e paterno, era diventato ostile e rabbioso. Il legame con la madre era diventato il solo sentimento forte della sua vita. Basta leggere alcune poesie che le ha dedicato. Sono struggenti dediche d’amore.

    È giusto ritenere che fu tra i primi a ravvisare l’avvento della società del consumo di massa anche in ambito sportivo?

    Con me non parlava di calcio. Ma certo molte sue parole suonano profetiche anche nei riguardi del calcio, soprattutto di quello ufficiale, legato ai troppi soldi e alla troppa pubblicità che hanno portato la corruzione all’interno del mondo sportivo.

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  • Il calcio secondo Pasolini – Introduzione

    Tratto da “Il calcio secondo Pasolini” di Valerio Curcio (2018, Aliberti Compagnia Editoriale)

    Quello tra Pier Paolo Pasolini e il calcio è un binomio suggestivo. Da un lato, uno sport che oggi rappresenta una delle più fiorenti industrie dell’intrattenimento al mondo: uno spettacolo che, nonostante la sua sempre più sfrenata commercializzazione, continua ancora a emozionare per le storie dei suoi protagonisti e per l’amore tra i tifosi e la loro squadra. Dall’altro, la figura di un intellettuale scomodo per definizione, a cui a oltre quarant’anni dalla morte viene tributato forse il più importante riconoscimento in termini di riabilitazione e di riscoperta artistica, anche in chiave commerciale. Da alcuni anni, infatti, Pasolini ha conquistato la ribalta dei mezzi di comunicazione e delle iniziative di ogni tipo: dai film ai graffiti, dai social network agli aperitivi, dagli spettacoli teatrali alle passeggiate tematiche. Non deve perciò meravigliare che un libro, pur rifiutando le letture semplicistiche che dominano certe narrazioni della sua figura, intenda incentrarsi proprio sul rapporto tra Pasolini e il calcio, un tema di certo considerato secondario nella sua storia e produzione artistica.

    In questa riscoperta di Pasolini, il racconto della sua esperienza umana e creativa è stato spesso banalizzato e rapportato semplicemente alla figura del “poeta delle borgate”, dell’intellettuale che ha dato dignità alle periferie urbane vivendole e raccontandole. Diversamente, altri profili importanti della sua poliedrica attività hanno avuto meno appeal: ad esempio il suo ruolo di militante comunista non ortodosso, di critico pungente della società dei consumi e di profondo indagatore dei rapporti tra i gruppi di potere politici e industriali. La stessa società dei consumi contro cui si scagliava, oggi ascesa a livelli allora inimmaginabili, funge da moltiplicatore seriale della sua immagine quasi fosse un brand attraverso una singolare operazione di marketing post mortem che ha già avuto un illustre precedente in Che Guevara.

    Di questo, ovviamente, risente anche la narrazione fin troppo stereotipata e spesso mistificata del rapporto tra Pasolini e il gioco del pallone. E da qui nascono la premessa e la motivazione di un libro incentrato su Pasolini e il calcio: proprio perché questo rapporto va ben oltre il flash superficiale che può fornire una sua foto su un campetto in terra battuta, vestito elegante in mezzo ai ragazzini coperti di stracci, o una sua breve citazione sul ruolo liturgico della partita allo stadio nella società contemporanea. Il rapporto di Pasolini con il calcio ha significato invece molto di più: un’immersione completa, autentica, profonda e al tempo stesso caleidoscopica che risulta assai difficile rintracciare anche nel più entusiasta dei calciofili o dei tifosi.

    In questo quadro, il criterio di strutturazione del libro si prefigge di ricomporre e restituire il suo approccio multiforme e totalizzante al calcio. Una sorta di mosaico articolato in cinque capitoli dedicati alle diverse ma coesistenti direttrici su cui si è instradato il suo rapporto con il pallone: l’amore mai spento per il Bologna, squadra del cuore fin dai tempi della sua gioventù; l’esperienza da calciatore praticante, dai campetti delle borgate romane fino ai grandi stadi di tutta Italia; la trasposizione del calcio in numerose sue opere, dai racconti ai romanzi; la sua pur sporadica ma intensa attività di giornalista sportivo, dalle cronache di un derby romano a quelle delle Olimpiadi del 1960; infine, la produzione di profondi e originali contributi sul ruolo del calcio nella società contemporanea. E forse l’essenza più originale del rapporto tra Pasolini e il calcio può essere rintracciata proprio nella sua personalissima interpretazione socio-antropologica, in quella sua “linguistica del pallone” in cui il gioco del calcio viene letto come sistema di comunicazione attraverso cui si materializza il “rito sacro” della partita allo stadio, celebrato con la compresenza fisica dei tifosi/fedeli sugli spalti e dei ventidue giocatori/sacerdoti in campo. In definitiva, il calcio inteso come linguaggio universale, come strumento di comunicazione, di scambio, di condivisione: dai campi sterrati delle borgate, fino ai grandi palcoscenici della Serie A.

    In foto: Piero Paolo Pasolini e Marino Perani ritratti da Paolo Ferrari nel 1975 durante un’amichevole tra il cast di “Salò” e le vecchie glorie del Bologna che vinse lo Scudetto nel 1964

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  • C’era una volta il Lanerossi Vicenza: dal Veneto a Stamford Bridge

    Un altro pezzo del calcio italiano è destinato a sparire. Il Vicenza Calcio, già Lanerossi Vicenza degli anni gloriosi, è sull’orlo del fallimento. Ieri era l’ultimo giorno utile per pagare i giocatori, senza stipendio da mesi, e scongiurare la messa in mora della società di Lega Pro. Ma l’amministratore unico Fabio Sanfilippo, personaggio ambiguo che è subentrato alle precedenti e disastrose gestioni, ha comunicato ai calciatori che non sarebbero stati pagati in giornata. La strada sembra segnata: i giocatori avranno la possibilità di svincolarsi e i biancorossi non si presenteranno alla sfida di Coppa Italia di sabato contro il Padova. La retrocessione in Serie D, vuoi per la decurtazioni di punti vuoi per il fallimento del club, sembra ormai inevitabile.

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  • Crowdfunding, la colletta moderna applicata al calcio: così i tifosi finanziano stadi, campi e progetti

    Mettereste 100 euro per realizzare lo stadio della Roma? E se questi 100 euro vi garantissero una cena con la squadra e la prelazione per abbonarvi? Oppure di dedicare un seggiolino del nuovo impianto a un vostro caro che non c’è più, che era tifosissimo della Roma? Non è una proposta, ma un semplice esempio di come funziona il crowdfunding applicato al calcio.

    Ogni tifoso nel corso della propria vita dà molti soldi al proprio club, così tanti che fare i conti è sconsigliato. Non è detto che siano troppi, questo sta alle possibilità e alle decisioni di ognuno. Ma quante volte il tifoso ha potuto vigilare sull’utilizzo di quei soldi, potendo poi “godere” del proprio investimento? Fino a pochi anni fa, praticamente, mai. 

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  • Perché il calcio italiano ha bisogno delle “Safe-Standing Areas”

    Tolte le barriere al centro delle curve, Roma guarda all’Europa per diventare una città più a misura di tifoso. Nei giorni scorsi il presidente della Commissione Sport del Comune, Angelo Diario, ha dichiarato che si sta lavorando affinché nelle curve dell’Olimpico si realizzino delle aree pensate per chi vuole assistere in piedi alla partita (cosa che avviene da sempre, ma calpestando i seggiolini). All’estero si chiamano safe-standing areas e sono la versione moderna delle gradinate di una volta. In Germania sono in quasi tutti gli stadi, così come altrove in Europa, e stanno tornando anche nel Regno Unito.

    IL DECRETO CHE VIETA I POSTI IN PIEDI

    Purtroppo, al di là dei buoni propositi di amministrazioni locali e club calcistici, l’ostacolo sembrerebbe essere a monte. C’è infatti un decreto del Ministero dell’Interno (Art. 6, D.M. 18/3/1996) che tra le altre cose regolamenta i posti in piedi negli stadi italiani: gli impianti calcistici non sono contemplati tra quelli che possono avere standing areas.

    Lo stesso Diario è cosciente del problema e vorrebbe risolverlo: «L’amministrazione non può scavalcare il decreto ministeriale. A metà maggio la Commissione Sport da me presieduta, come ha fatto per le barriere, metterà attorno a un tavolo i soggetti interessati: CONI, FIGC, Comune, commissione parlamentare Sport e Cultura e, auspicabilmente, anche club e rappresentanti dei tifosi. Inoltre, in vista dell’appuntamento il CONI sta preparando un approfondimento normativo per capire se basta una modifica o va riscritto l’intero decreto».

    I TRE TIPI DI STANDING AREA

    Quando si parla di settori per stare in piedi, va considerato che la UEFA impone che nelle competizioni europee gli impianti abbiano solo posti a sedere. Quindi le standing areas devono potersi facilmente trasformare in settori con seggiolini, e viceversa. A seconda del modo in avviene questa sorta di metamorfosi, se ne possono distinguere tre tipi.

    1) Rail seats

    Sono i seggiolini adottati dal Celtic FC per la sua nuova standing area. Sono pieghevoli (come le sedie del cinema) e prevedono una ringhiera per fila, o al massimo una ogni due. Ogni seggiolino è dotato di una serratura che lo blocca in posizione chiusa: prima delle competizioni UEFA, il personale dello stadio provvede a sbloccare tutti i posti a sedere.

    2) Bolt-on seats

    Non tutti sanno che una delle curve più famose d’Europa, la Südtribüne del Borussia Dortmund, è un’enorme standing area da quasi 25 mila posti in piedi. La parte alta presenta seggiolini di tipo rail, mentre nella parte bassa sono di tipo bolt-on. I posti a sedere di questo tipo sono del tutto smontabili e vengono portati via dopo le partite europee, lasciando spazio alla più classica delle terraces a gradoni.

    3) Fold-away seats

    Compongono la standing area che ospita i tifosi del Bayern Monaco all’Allianz Arena. I posti a sedere si piegano interamente verso il basso e vanno a finire sotto ai piedi del tifoso, trasformandosi in una pedana calpestabile. Questo tipo di seggiolini dà luogo a una vera e propria gradinata, con ringhiere intervallate che possono essere più o meno fitte.

    Se da un lato i bolt-on seats, quelli removibili, rappresentano una soluzione un po’ antiquata e costringono ogni volta a smontare manualmente migliaia di seggiolini, dall’altro i rail seats comportano l’installazione di una ringhiera per fila e limitano molto la libertà di movimento, cosa che in tempi di lotta alle barriere può sembrare un po’ paradossale. I fold-away seats, almeno nell’opinione di chi scrive, sono quelli che più si adatterebbero alle curve italiane, perché una volta chiusi lasciano spazio a una gradinata vecchio stampo e molto aperta, garantendo al contempo la sicurezza di chi la frequenta.

    La TV dei tifosi dell’Everton ha visitato la safe-standing area del Borussia Dortmund

    PERCHÉ CE N’È BISOGNO?

    Veniamo al punto centrale della questione. Se da un lato le istituzioni sembrerebbero intenzionate ad avviare un dibattito pubblico sulle standing areas, lo stesso non si può per ciò che hanno espresso fino ad oggi le tifoserie. Tra i tifosi italiani è tacitamente diffuso un ragionamento molto logico: se nelle curve già si sta in piedi, perché mai dovremmo volere una standing area?

    Ci sono però almeno quattro motivi per iniziare quantomeno a parlarne.

    1) Aumenta la sicurezza.

    Chi, esultando al goal della propria squadra, si è fatto quattro file per poi atterrare di stinco sullo schienale di un seggiolino, può capire. Questa è la vera safety, non quella delle barriere al centro delle curve.

    2) Sono una garanzia per il futuro.

    Vi ricordate tamburi e megafoni? Nulla toglie che un giorno qualcuno vieti anche l’innocua prassi di guardare la partita in piedi. Chiedetelo ai tifosi del West Ham alle prese col nuovo stadio.

    3) Aumenta la capienza degli impianti.

    Basta un esempio: in Champions lo stadio del Borussia Dortmund ospita circa 66 mila tifosi. Per la Bundesliga, quando i posti a sedere in curva vengono smontati, la capienza raggiunge le 81 mila unità. Se aumenta la capienza delle curve, aumenta pure lo spettacolo sugli spalti, e la tv potrebbe addirittura ricominciare a inquadrarli.

    4) Si abbassano i prezzi.

    Sveliamo uno dei segreti del tanto decantato modello tedesco: allo stadio l’offerta è diversificata a seconda dei diversi target di tifoso. A Monaco un biglietto in curva per la Bundesliga costa 16 euro, l’abbonamento 140. I settori popolari sono davvero popolari e vengono compensati dalla capienza maggiore e dai servizi “vip” in tribuna. Così si riempiono gli stadi. È il marketing, bellezza!

    CONCLUSIONI

    L’auspicato percorso di rinascita del calcio italiano dovrebbe passare anche dalle standing areas, perché la vivibilità e la fruibilità degli stadi sono ai minimi storici e l’Olimpico di Roma ne è un esempio. È d’accordo Lorenzo Contucci, avvocato da sempre attento alle questioni relative al mondo del tifo: «Trovo paradossale che in Italia chi vuole stare in piedi sia costretto a farlo su posti pensati per far stare le persone sedute. Per tornare a riempire gli stadi bisogna diversificare i settori a seconda del tipo di tifoso: le standing areas sarebbero un passo avanti in questa direzione».

    Forse per la prima volta in Italia il dibattito pubblico in favore di un tema che dovrebbe essere caro ai tifosi viene innescato dalle istituzioni. E non è detto che sia una cosa negativa, anzi, magari accadesse più spesso. Ciò che manca, però, è la voce dei tifosi di tutta Italia, anche perché – nonostante la scelta illuminata di rimuovere le barriere a Roma – non è affatto detto che al Ministero dell’Interno piaccia l’idea di cambiare le norme sui posti in piedi. Le standing areas sarebbero una garanzia contro la barriera più pericolosa, cioè quella economica. L’aumento dei prezzi dello stadio è purtroppo già una realtà, ma con il lento migliorare degli impianti il fantasma del caro-biglietti si farà sempre più incombente.

    In copertina: “Looking up” di Stuart Roy Clarke
    (Tifosi del Sunderland nel 1996 a Roker Park)

    Pubblicato su Gioco Pulito il 4 aprile 2017

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  • Dario Hubner che fa tre goal da ubriaco: storia di una bufala

    Dario Hubner che, dopo essersi ubriacato di sambuca e Caffè Borghetti con gli ultrà, entra in campo e fa una tripletta. Storie stupende, che solo il calcio sa regalarci. O almeno questo è quello che devono aver pensato migliaia di fan che su Facebook hanno apprezzato questa storia,quando l’hanno letta sulla pagina ufficiale della Serie A Tim. La trama è davvero poco credibile, ma la fonte è certa: potrebbe mai la pagina ufficiale della Serie A raccontare una cosa del genere senza aver svolto le opportune verifiche?

    Sì. Lo ha fatto, è stata tempestata di critiche e prese in giro, ha eliminato il contenuto e poi ha chiesto scusa. Non una bella figura. Come è stato possibile?

    Per spiegarlo bisogna considerare che, nel mondo di Facebook, è molto comune che le pagine si approprino di contenuti altrui riproponendoli come propri. Certo, parliamo di pagine gestite liberamente da amministratori indipendenti, che non devono rendere conto a nessuno della propria netiquette. A volte però l’esecrabile uso del copia-incolla è praticato anche dai social media manager di canali ufficiali, seguiti da milioni di fan. Talvolta, anche questi professionisti cascano nella fallace equazione secondo cui ciò che è di successo è per forza anche veritiero.

    D’altra parte, la storia del Bisonte che entra in campo ubriaco e ne mette tre era stata condivisa da numerose pagine della calciosfera, raccogliendo decine di migliaia di like. Come poteva essere falsa?

    E invece lo era. Peggio: era una storia falsa pubblicata da una pagina che condivide solo storie false. Si chiama Storie romantiche sul calcio e in poche settimane ha raggiunto un seguito di quasi 25 mila persone.

    C’è chi, frustrato dopo aver realizzato che pubblicano solo fandonie, la critica aspramente. Dario Hubner ha minacciato azioni legali. Ma la descrizione della pagina parla chiaro: “Ci inventiamo storie sul calcio palesemente finte. Perché avete rotto il cazzo di far diventare tutto romantico. Perché la merda non è romantica”. I post prendono valanghe di like ed è difficile dire quanti provengano da persone che ne apprezzano l’umorismo e quanti da inguaribili creduloni.

    Al primo posto per numero di storie inventate figura il Leicester di Claudio Ranieri. Le Foxes dei miracoli le ricorderemo per sempre, proprio per la storia incredibile (e vera) che stanno scrivendo giornata dopo giornata. Eppure, come se la realtà non bastasse, la pagina ufficiale del sito Livescore24.it ha condiviso con i suoi quasi 200 mila fan il seguente racconto firmato da Jamie Vardy, ovviamente copiato da Storie romantiche sul calcio.

    «Sono un operaio io. Nel 2005 mi diedero cinque giorni di sospensione per essere arrivato ubriaco al lavoro, ma il lavoro continuò lo stesso. Figuratevi se ho paura di due giornate di squalifica che quelle fighette della Football Association potrebbero darmi. Se i miei compagni dovessero vincere sia contro lo Swansea che contro lo United mi bevo sei Coca e Fernet sotto Buckingham Palace. Siamo una squadra di matti noi».

    Insomma, storie e dichiarazioni così poco credibili da far sorgere qualche dubbio riguardo chi le ripropone su canali ufficiali: e se gli amministratori fossero coscienti della loro falsità, ma le pubblicassero perché, visto il flusso di utenti che portano, il gioco vale la candela? Cinico, ma più che possibile.

    Eppure, l’obiettivo di Storie romantiche sul calcio non è quello di ingannare i gestori delle più famose pagine Facebook che trattano di pallone. Abbiamo parlato con quel fango dell’amministratore (ci tiene a essere chiamato così, probabilmente è un epiteto ricevuto da qualche lettore deluso) per capire come e perché nasce il suo progetto: «Mi ero reso conto che c’erano pagine che sfruttavano l’onda del “romanticismo calcistico” inventando tante storielle per crescere di popolarità. Così ho deciso di creare la mia pagina per loro, per esaltare fino al ridicolo dichiarazioni assurde come quella di Vardy».

    L’oggetto della sua satira sono infatti alcune pagine Facebook che vanno per la maggiore, come si nota dai riferimenti più o meno espliciti: da quelle dedite ai bomberismi,«che ridono ancora per la barba di Moscardelli o per Borriello che segue una tizia a caso su Instagram», a quelle dei nostalgismi, «che per un pugno di like esaltano calciatori che non hanno mai segnato la nostra infanzia: davvero, chi si filava gente come Cleto Polonia o Pino Taglialatela?».

    Probabilmente tutti gli utenti dei social network hanno qualcosa da imparare dalla storia di Dario Hubner che fa tripletta ubriaco. Capita spesso di guardare distrattamente la home di Facebook, di leggere cose di sfuggita e di concedere il nostro like solo perché ci piacciono, senza domandarci se siano vere. Un po’ di attenzione e puzza sotto al naso in più possono aiutare a non fare brutte figure.

    Chi ha più da imparare, però, sono i professionisti che gestiscono la pagina Facebook della Serie A: abbiamo avuto la prova che anche loro copiano e incollano senza pietà. Insomma, da delle persone pagate per fare il lavoro di social media manager (peraltro con i soldi di noi appassionati, è bene ricordare) ci si aspetterebbe un comportamento deontologicamente più corretto.

    D’altronde, non è la prima volta che il canale ufficiale del campionato si rende protagonista di una gaffe. Nel 2012, durante un Roma-Novara giocato alle 12:30, la Curva Sud espose uno striscione che recitava: «13:12 buon pranzo a tutti». La pagina della Serie A ne condivise una foto, per poi cancellarla frettolosamente dopo aver letto i commenti di scherno. 1312 è infatti l’equivalente numerico dell’acronimo ACAB (all cops are bastards), slogan internazionale utilizzato contro la polizia.

    Cos’è dunque più grave per la pagina ufficiale di un campionato, insultare indirettamente tutti i poliziotti o rovinare il compleanno a Dario Hubner?

    PS: la Ceres è famosa per avere una strategia comunicativa acuta e irriverente. Qualità principale: seguono tutto ciò che accade sui social. Con questo post hanno espresso il loro sostegno a Storie romantiche sul calcio.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 28 aprile 2016

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  • A Torino rinasce il Filadelfia: la nuova casa del Toro sarà un luogo di cultura e aggregazione

    Sul sito della Fondazione Filadelfia c’è una webcam che dall’alto mostra costantemente lo stato dei lavori. Non è solo un segnale di trasparenza. Sta lì a dire: guardate che stavolta lo stiamo facendo davvero. Dagli anni Ottanta ad oggi, dopo innumerevoli tentativi di ricostruzione (su Wikipedia se ne elencano almeno sette), questa è veramente la volta buona: il Fila non sarà più solo un simbolo della storia granata.

    A Via Filadelfia tornerà a sorgere la casa del Torino FC, che sarà, innanzitutto, un centro sportivo dotato di due campi di calcio. Uno per gli allenamenti della prima squadra e uno per le partite della Primavera. Quest’ultimo disporrà di una tribuna coperta e di tribune minori sui tre restanti lati, per una capienza totale di oltre 4.000 posti. Sotto la tribuna gli uffici del Club, la sede della Fondazione, la foresteria per le giovanili, parcheggi, sala stampa ed altre aree da destinare.

    Ma non sarà solo un centro sportivo all’avanguardia. La tradizione vuole, infatti, che il Filadelfia sia il luogo d’incontro tra club e tifosi. E allora quella sportiva sarà solo una parte del moderno polo multifunzionale, che presenterà notevoli spazi dedicati alla cultura e all’aggregazione. Sarà un luogo in cui si respirerà la forte volontà del mondo granata di sanare il proprio debito con la Storia, rendendo finalmente un tributo perpetuo ai caduti di Superga e curando una ferita da troppi decenni aperta nel tessuto urbano della città. Nel progetto, i richiami al passato sono un po’ ovunque: dai luminosi Piloni della Memoria, che porteranno i nomi dei giocatori del Grande Torino, a due porzioni originali di gradinata salvate dalla demolizione, fino al Museo del Grande Torino, che troverà finalmente la sua sede fissa nell’area socio-aggregativa prevista dal progetto.

    Cesare Salvadori è il Presidente della Fondazione Stadio Filadelfia, nonché ex schermidore, vincitore di un oro e due argenti nella sciabola a squadre ai giochi olimpici tra gli anni Sessanta e Settanta. È lui che, con entusiasmo e determinazione, coordina la rinascita del tempio granata. «La Fondazione», ci spiega Salvadori, «è composta dal Comune di Torino, dalla Regione Piemonte, dal Torino FC e da sette associazioni di tifosi, tra cui quella che gestisce il Museo del Grande Torino a Grugliasco. Lo scopo è quello di costruire il centro sportivo, che sarà poi affittato al Torino FC, e di realizzare la parte socio-aggregativa del complesso, alla quale tengono molto le due istituzioni coinvolte».

    Il progetto è diviso in tre lotti. Ciò ha permesso alla Fondazione di finanziarli uno per volta e di iniziare nel frattempo i lavori del primo lotto, che è già finanziato grazie al contributo complessivo di 8 milioni versati da Comune (3,5), Regione (3,5) e Fondazione Mamma Cairo (1). «Se il meteo continua ad assisterci e non sorgono ulteriori impedimenti burocratici», continua Salvadori, «prevediamo di inaugurare l’impianto sportivo, cioè il primo lotto, il 17 ottobre 2016. Ovvero, contiamo di consegnare al Torino l’impianto sportivo nel giorno in cui ricorreranno novant’anni dall’inaugurazione del Filadelfia».

    Se la parte sportiva del progetto è già quasi interamente finanziata, bisogna però trovare i fondi per tutto il resto. Il secondo lotto è composto da tutto ciò che si trova nei tre piani interni alla tribuna coperta, da alcune aree all’aria aperta e dai Piloni della Memoria. Il terzo corrisponde invece all’area che si affaccia su Via Giordano Bruno (museo, bookshop, negozi ed area ristorazione) e la sua progettazione sarà ultimata entro marzo 2016. Resta inoltre da finanziare il restauro delle due porzioni storiche di gradinata.

    Chi pagherà dunque la realizzazione del secondo e terzo lotto? «Chiunque voglia. Abbiamo infatti lanciato una campagna di crowdfunding chiamata “Insieme per il Fila”, grazie alla quale in autunno avevamo già superato il traguardo dei 200 mila euro. Si può partecipare con contributi dai 50 euro in su, fino ad ottenere, superando i 1.000 euro, l’intitolazione di un seggiolino al donatore o a una persona che non c’è più. Magari a qualcuno che avrebbe sognato di vedere risorgere questo stadio». La Fondazione inoltre porterà avanti una campagna mirata per coinvolgere i Toro Club e le imprese locali, di modo che il crowdfunding vada di pari passo con la ricerca di sponsor.

    Anche se il finanziamento della seconda parte del progetto si potrà realizzare in varie forme, ci saranno dei paletti: «Per volere dei tifosi, non si permetterà a privati di realizzare opere di tipo commerciale per finanziare l’impianto sportivo. Ovvero, niente palazzine e niente parcheggi interrati realizzati da altre società: il terreno del Filadelfia rimarrà tale nella sua interezza».

    Nei decenni passati i tifosi granata ne hanno viste e sentite tante sul Filadelfia. Troppe volte sono stati portati a sperare nella sua ricostruzione, e altrettante sono stati delusi. Per questo all’inizio è stato difficile, per la Fondazione, convincere tutti che questa era la volta buona.

    Oggi invece, la ricostruzione del Fila sembrerebbe aver messo d’accordo proprio tutti. Al progetto collaborano, ognuno nelle sue forme, soggetti che vanno dagli ultras della Curva Maratona alle istituzioni. Passando per Toro Club, associazioni, imprese e sponsor. Un’unità d’intenti che sembrerebbe irrealizzabile in qualsiasi altro contesto. «Dobbiamo essere considerati come un caso a parte», spiega Salvadori, che fa da guida alla variegata comunità di sostenitori. «Noi abbiamo alle spalle delle tragedie, intendo quelle di Superga e di Meroni, che fanno della squadra di Torino e della sua storia un caso unico non solo in Italia, ma forse al mondo. Il Filadelfia è il residuo storico di questi eventi tragici. Noi tifosi questo lo sentiamo sulla pelle e ci permette di restare così uniti verso l’obiettivo».

    Conclude emozionato: «Per trasmettere meglio il sentimento che è alla base di questa storia, vorrei raccontare una cosa. Nel 2014 sono ricorsi i 65 anni della tragedia di Superga. Il 4 maggio a Superga c’è stata una messa e un momento di raccoglimento attorno al luogo dell’incidente aereo. In questa occasione l’accesso in auto viene sempre bloccato, perciò si sale a piedi: quel giorno 20 mila persone fecero a piedi l’intero percorso! Bambini, anziani, persone col passeggino. Raramente ho provato un’emozione così forte come quella ha colto me e gli altri tifosi in quell’occasione. Questo forse aiuta a comprendere perché una intera e variegata comunità remi unita verso un unico obiettivo».

    Il rilancio del calcio italiano, è cosa nota, passa anche per la valorizzazione degli impianti e dei settori giovanili. Questo progetto, a guardarlo bene, prende due piccioni con una fava: si costruirà uno stadio e sarà utilizzato dalle giovanili del Torino. Ma non solo, perché il rilancio del calcio italiano, e questa forse è convinzione meno comune, passa anche per il recupero dei valori e delle storie che in passato lo hanno fatto grande. Aspetti che oggi vengono spesso ignorati in nome di logiche di business che hanno reso gli appassionati di questo sport sempre più clienti e meno tifosi. Per una volta, finalmente, la rinascita del nostro screditato pallone passerà invece per chi dovrebbe averlo più a cuore: in primis tifosi, club e istituzioni. Ti aspettiamo Filadelfia.

    Pubblicato su Gioco Pulito il 22 gennaio 2016

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